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Qohelet

download50pdf50pdf50Qohelet e il tempo.  (3, 1-15)

Qohelet si sofferma ancora a considerare la condizione umana in quanto misurata dal tempo. Già sappiamo bene che il tempo è creatura di Dio, donata da lui agli uomini, ma gli uomini non hanno la capacità d’interpretarlo. Gli uomini sono nel tempo e ne hanno la percezione – Dio stesso li ha dotati di tale percezione -, ma non ne sanno interpretare il senso. Leggiamo:
Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre egli ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine (3,10-11).
Gli uomini sono nel tempo e hanno percezione di questa loro condizione temporale, ossia della «durata dei tempi», ma non comprendono «ciò che Dio compie dal principio alla fine». Siamo nel tempo senza comprenderne il senso. Dio ci ha messi nel tempo e ha messo nel nostro cuore la nozione di esso, ma noi non siamo in grado di interpretarne il senso.
Dice Qohelet:
Ho capito che per essi non c’è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio (3,12-13).
Quel che già sappiamo. Non c’è nulla di meglio per essi che «godere e procurarsi felicità» nella loro vita, ossia mangiare, bere e riposarsi. Ma tutto questo è «dono di Dio». Nessuno può pretenderlo.
Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; …
Qualunque cosa Dio faccia è definitiva. Quello che Dio fa rimane. Noi siamo nel tempo, ma Dio è nell’eterno. Perciò quello che Dio fa «dura per sempre» ed è immutabile; e quindi
… non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema (3,14).
Val la pena di notare che qui Qohelet sta citando il Deuteronomio (cf. 4,2; 13,1). «Non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere». Soltanto che questa espressione viene usata in Dt per annunciare che non c’è nulla da aggiungere e nulla da togliere in rapporto a quello che Dio ci ha voluto rivelare; qui, invece, Qohelet usa questa espressione, prelevata da Dt, per affermare esattamente l’opposto: Dio nasconde quel che a noi non viene rivelato. Se le cose stanno così, è perché Dio non vuole farci comprendere quel che soltanto lui stesso comprende. Lui, nell’eterno, comprende il tempo; noi, che siamo nel tempo, non lo comprendiamo. «Nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché si abbia timore di lui».
E qui il paradosso giunge all’estremo, perché noi sappiamo che, secondo la sapienza antica, c’è una condizione che imposta tutta l’attività, e quindi la ricerca tradizionale dei sapienti, che si può ricapitolare nel detto «il principio della sapienza è il timore del Signore». Il timore del Signore, dunque, sta al principio della ricerca sapienziale. Qui, invece, Qohelet sta dicendo che il timore del Signore è il frutto dell’ignoranza. Il
timore del Signore è quella situazione alla quale siamo condotti – anzi, nella quale siamo ridotti – dal momento che non comprendiamo quel che Dio non ci ha rivelato. Questo è esattamente un ribaltamento: dal timore del Signore come principio della sapienza al timore del Signore come frutto dell’ignoranza. «Dio agisce così perché si abbia timore di lui».
Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso (3,15).
È lui che governa il tempo, cosicché quanto è già passato per noi, è permanentemente attuale per lui nella sua eternità; mentre lui solo «può cercare ciò che ormai è scomparso» per noi che siamo nel tempo, noi già moriamo e siamo finiti. Qohelet è in adorazione. Ci sta testimoniando la sua intima consapevolezza di essere creatura. Non sta strepitando, nient’affatto; sta descrivendo – per quello che gli è possibile – come sono andate maturando le esperienze della sua vita e della sua ricerca; insomma, sta esprimendo qui l’acquisita consapevolezza di essere creatura: una creatura che non appartiene a se stessa.
Noi siamo nel tempo: e stare nel tempo non significa essere dotati di uno strumento utile per gestire il mondo, bensì significa essere condotti alla consapevolezza di una radicale povertà. Siamo nel tempo per constatare di non appartenere a noi stessi: io non sono mio. Eppure il tempo – come ogni altra creatura – è stato dato agli uomini, affinché questi rispondano alla loro vocazione. Più esattamente il tempo interpella la responsabilità degli uomini, costringendoli a confermarsi nella loro propria condizione di creature, senza aver modo di intraprendere iniziative autonome.
La pretesa umana di elaborare criteri validi per interpretare la sequenza dei tempi – nel loro avvicendarsi e nel loro alternarsi – diventa un inventario di banalità, di contraddizioni, di insulsaggini, come quando Qohelet ci diceva nella pagina precedente: «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, c’è un tempo per piantare e un tempo per sradicare quello che si è piantato». Quando pretendiamo di ergerci come dominatori del tempo, ci stiamo inabissando nella tragedia della nostra insensatezza. D’altra parte, anche la percezione del nostro essere creature nel tempo ci è data da Dio: e ci è data insieme con la radicale esperienza della nostra povertà.
(da Nella crisi della sapienza di P. Stancari)
DOMANDE PER IL CONFRONTO (11 maggio 2012)
1. Quali sensazioni ha suscitato in me questo cammino finora compiuto sul Qohelet? Quali riflessioni mi ha fatto fare?
2. Come reagisco di fronte ai limiti che la vita mi pone?
3. Il pensiero alla morte: è fonte di paura, o principio di sapienza?
4. Il narcisismo, smodato amore di se stessi: quali segni ne scorgo nella società odierna?
5. Io e il tempo: quale rapporto: conflittuale o sapienziale?