Esodo

download50pdf50Cap. 3, 4-15
Ed ecco che repentinamente, mentre contempla quel roveto, Mosè riconosce la voce di Dio (cfr.3,4); allora egli rimane come impietrito di fronte alla semplicità della rivelazione: al fondo di tutto, del suo cuore e della sua vita, del suo sperare e del suo morire, c’è una presenza che non si consuma mai, perché quella presenza è Dio. Mosè può .solo togliersi i sandali, perché quel luogo è «terra santa» (3,5). E la voce di Dio finalmente l’investe con potenza:« E disse: “lo sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe “. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio ». (3,6).
La missione di un personaggio divenuto inutile
La chiamata del Signore non lascia spazio a Mosè per intimismi inutili. Subito la voce di Dio gli spiega la ragione del suo intervento: «Il Signore disse: ” Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto ed ho udito il suo grido … conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto… Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me”» (3,7-9). Se Mosè è chiamato da Dio, questo evento si situa, in tutto e per tutto, al di dentro di una prospettiva missionaria. La vocazione di Mosè non è in nessun modo un regalo che premia la sua paziente e premurosa attesa; e non ha nemmeno il valore di un conforto spirituale destinato a sostenere il suo privato programma di vita. La vocazione di Mosè, in verità, si riassume integralmente nell’impegno di una missione: «Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti» (3,10). La storia di Mosè, dunque, ha subito una nuova svolta: ora è giunto il momento del ritorno in Egitto, perché Dio lo manda a trarre fuori Israele dalla sua schiavitù.
Ogni persona umana è depositaria di una vocazione che viene da Dio; ed ogni vocazione ha sempre il significato di un impegno a vantaggio dell’umanità: a nessuno è consentito di rintanarsi nel proprio cantuccio di fervoroso autocompiacimento. Per chi affronta sul serio il mistero della propria vocazione, tutto comincia a girare ad una velocità vorticosa: allora ci si trova presi da responsabilità sempre più universali. Anche Mosè viene strappato via dalle sue abitudini più scontate e sottratto all’angustia di un’esistenza privatizzata. Egli ha ormai compreso quanto fossero pretenziose ed intempestive le sue smanie giovanili e deve riconoscere che la presunta missione di salvatore, in nome della quale aveva speso la sua giovinezza (cfr. 2,11-15), risulta semplicemente ridicola di fronte all’esperienza nuova, che sente esplodere dentro di sé, il giorno in cui Dio stesso gli affida la missione di salvezza che ha disposto per lui.
Eppure, questo Mosè, invecchiato e reso sapiente dalla vita, riesce soltanto a dire: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti? ». Sembra che la vocazione lo abbia come inchiodato all’evidenza della sua inutilità: «Chi sono io? ». Ed è così che la missione di Mosè acquista la sua reale portata: essa non è altro che il frammento di un mistero in cui Dio stesso lo sta coinvolgendo. La risposta alla domanda di Mosè, infatti, non si farà attendere: «lo sarò con te» (3,12). Poi Dio indica un segno, a conferma di questa promessa: quando il popolo d’Israele sarà uscito dall’Egitto, il Signore attende tutti ad un appuntamento che avrà luogo «presso quel monte» (cfr. 3,12).
Mosè, che è giunto solo e umiliato al «monte di Dio », è dunque il primo di quei poveri, che in quello stesso luogo troveranno una nuova missione per sé e per i propri discendenti: sarà quello un popolo di gente che, quando avrà scoperto di essere inutile, allora potrà svolgere un ministero di salvezza per l’umanità intera (cfr. 19,1ss.).
Il nome di Dio
Prima di partire per la sua missione, Mosè vuole ancora sapere da Dio qualcosa: «Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? Ed io che cosa risponderò loro? » (3,13). A Mosè sembra necessario conoscere il nome di Dio, perché nel nome risiede – secondo la mentalità semitica – tutta la potenza di un certo personaggio: nel nome è condensata la personalità di un individuo, il segreto del suo destino e le prerogative del suo carattere.
Conoscere il nome di Dio significherebbe finalmente avere in mano quello strumento magico che potrebbe garantire agli Ebrei il modo per risolvere ogni difficoltà e per sconfiggere ogni opposizione (cfr. Gen. 32,30).
La risposta di Dio è, a prima vista, deludente: «Dio disse a Mosè: “lo sono colui che sono! “.
Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io-sono mi ha mandato a voi”» (Es. 3,14). Sembra che con questo misterioso gioco di parole Dio intenda sottrarsi alla richiesta di Mosè, celando il suo segreto sempre più a fondo nella sua insondabile identità divina. Jahvè non è un dio come gli altri dei, disponibili alle strumentalizzazioni umane e pronti a benedire i desideri di potenza e di affermazione, che nascono dalla fusione solidaristica di un popolo. Il nome di Jahvè appartiene soltanto a lui, perché egli non è come quegli idoli, che sono «opera delle mani di un uomo» (cfr. Sal. 115,4).
Ma la risposta di Dio contiene pure una rivelazione nuova, che fa fare un passo avanti nel cammino della Storia della Salvezza. Mentre nasconde la sua identità trascendente, infatti, in realtà la voce di Dio – per il fatto stesso del suo parlare – rivela la sua presenza nella storia umana. Il nome di Dio, dunque, ne manifesta, più che l’identità, la presenza vivente: «Dio aggiunge a Mosè: “Dirai agli Israeliti: il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi» (3,15). Jahvè è colui che si fa presente nelle vicende della nostra vita, colui che .mai ci abbandona, perché sempre si ricorda delle sue promesse. Egli è il Dio di sempre: colui che chiama e promette, colui che porta a compimento secondo la sua volontà, colui che sempre accompagna la storia umana valorizzando in essa i poveri e i dimenticati, come sacramenti della sua presenza. È così che lungo i secoli il nome di Dio dà continuità alle vicende del suo popolo: «Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (3,15). Se dunque gli Ebrei chiederanno a Mosè quale sia il nome del Dio che lo manda ad essi, la risposta di Mosè dovrà rinviarli alla loro storia, passata e futura. Jahvè è colui che, all’origine della loro discendenza, ha chiamato i patriarchi, e che ascolta oggi il grido della loro povertà; soprattutto egli sarà il loro compagno di viaggio nel cammino della liberazione, quando farà di loro il «suo popolo» (cfr. 6,2-3;19,5). Essi lo incontreranno, Signore e Padre, nelle opere che compirà a loro vantaggio, mentre già comincia a manifestare loro nella missione di Mosè le meraviglie della sua benevolenza (cfr. 3,16-20).