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Esodo

ESODO        MOSÈ, IL FARAONE E NOI.          download50

Da “Personaggi biblici attraverso il midrash” di Elie Wiesel

 Uscendo dalla calma del deserto, Mosè si gettò nel turbine della storia. In Egitto, assiste e ci fa assistere alla disgregazione di un impero; tutto si disgrega; tutto si svolge in fretta, sempre più in fretta. I protagonisti del dramma sono trascinati da passioni e da correnti sconosciute. Il testo diventa affannato, spinto da uno slancio irresistibile. Poema epico dai mille frammenti uniti nella luce. Tutto è descritto con intensità e precisione: l’umore della popolazione, la paura degli schiavi, la vana arroganza dei regnanti, gli appelli all’insurrezione, gli echi, negli ambienti del potere e fra gli oppressi. Sì, no. I primi dubbi da entrambe le parti, le prime spaccature. No, sì. Accettare la sfida o sottomettersi. Esitazioni, tergiversazioni nelle capanne povere e nei palazzi oscurati dalla maledizione. Che fare? Che dire? Chi seguire? Come distinguere il segno della salvezza, il senso della storia?
All’inizio, Mosè e il fratello Aronne sono soli, senza alleati né compagni. Mosè si rende conto che il suo scetticismo era fondato; gli schiavi vogliono restare schiavi. Ascoltiamo il Midrash: Arrivati in Egitto, Mosè e Aronne furono accolti dagli Anziani della tribù d’Israele, che si dichiararono subito pronti a seguirli fino alla fine. Ma, a mano a mano che avanzavano verso il palazzo reale, gli Anziani cambiavano idea. A poco a poco, il gruppo si smembrò. E disparve. I due fratelli penetrarono da soli nella residenza dei Faraoni. Se gli Anziani perdevano coraggio, se i capi cedevano alla paura, che si poteva chiedere all’ebreo medio?
No, gli schiavi non erano disposti a partire, non più di quanto il Faraone fosse disposto a lasciarli partire. A dire il vero, il Faraone, se fosse stato un abile politico, avrebbe potuto giuocare d’astuzia: Volete un esodo? Con piacere. Di tutti questi schiavi ebrei, posso fare a meno. Andate, prendeteli. E che sollievo Una domanda però: Li avete almeno consultati? Siete sicuri che abbiano voglia di andarsene? Per fortuna, Dio impedì al Faraone di ricorrere a quell’espediente, risparmiando a Mosè l’umiliazione di mostrargli degli schiavi reticenti a seguirlo.
Da questo popolo eletto, Mosè si aspettava ben altro: una visione diversa, una adesione diversa.
Dopo la loro liberazione, avrebbero dovuto vivere orgogliosamente, da eroi, e non come una banda di evasi. Vayektal Moshe – e Mosè pregò – è interpretato nel Midrash: Mosè si ammalò. Troppe persone lo stancavano con troppe cose. Ce l’immaginiamo offuscato, infelice. Solo una volta, ce lo mostrano felice: quando suo fratello salì alla carica di sommo sacerdote. Per il resto del tempo, sembra chiuso alla gioia, e più ancora all’esuberanza collettiva. Troppe responsabilità, troppi dolori lo opprimono. Si occupa di tutto lui, da solo.
Senza compagni e alleati fedeli. Anzi, sente di non essere amato; si diffida di lui, lo si invidia. Qua e là, giovani profeti cospirano alle sue spalle. Dignitari e notabili – del famoso clan di Korakh preparano un colpo di stato per deporlo. Altri, che lui aveva mandato come esploratori nel paese di
Canaan, tornano, portatori di cattive notizie: La terra promessa è abitata da giganti, agli occhi dei quali ci sentivamo piccoli piccoli e meschini, dicono. I nipoti di Mosè sono entrati nel santuario in stato di ubriachezza. Il fratello Aronne ha concesso il suo contributo per la fabbricazione del Vitello d’Oro. No, Mosè non è felice.
Con gli anni, la situazione peggiora. Un testo riferisce che alcuni uomini lo trattarono da pazzo.
Lui, il capo, la guida. Commentava la Legge, quando alcune persone lo interruppero: Ci farai un discorso, tu, balbuziente? E ancora: Alcune persone presero i propri figli e glieli gettarono tra le braccia, gridando: Allora, Mosè, come pensi di nutrirli? Che mestiere gli insegnerai? E ancora:
Quando lasciava la sua tenda più presto del solito, gli chiedevano: perché così presto? Quando lasciava la sua tenda più tardi del solito, dicevano: perché così tardi? .Quando lasciava la sua tenda senza esser visto, dicevano: perché si nasconde? E ancora: Mosè spiegava la Legge e la gente si rifiutava di imparare. Dopo quarant’anni di potere, doveva ancora dare prova delle sue capacità; ogni sera doveva dire dove si trovavano e quanti giorni erano trascorsi dal Sinai. E soltanto allora furono disposti ad ammettere. che era in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Chissà? Forse la decisione divina di proibirgli l’accesso alla Terra promessa, fu una ricompensa, più che un castigo.
A dispetto delle sue delusioni, malgrado le sue prove, nonostante l’ingratitudine, Mosè non perdette la fede nel suo popolo; seppe sempre restare dalla parte d’Israele e proclamare il suo onore e il suo diritto alla vita.
Malgrado tutto quello che aveva subito, attraverso , tutte le prove della sua esistenza, sapeva accettare ogni dono con riconoscenza. Mosè, o la gratitudine personificata. Dei suoi dieci nomi, dice un testo, adottò quello che la figlia del Faraone gli aveva dato. Per riconoscenza.
Nel periodo delle grandi piaghe che si abbatterono sull’Egitto, fu Aronne e non Mosè, a colpire il Nilo con il suo bastone, poiché Mosè non voleva far soffrire il fiume che gli aveva salvato la vita.
Quando Israele s’impegnò nella guerra contro il paese di Madian, fu Giosuè e non Mosè a dirigere le operazioni; Mosè non voleva battersi contro il paese che lo aveva accolto.
La grande virtù nascosta di Mosè non era l’umiltà, ma la gratitudine.
Nessuno conosce il luogo in cui riposa. Per gli uomini della montagna, la sua tomba si trova nella valle; per gli uomini delle valli, si trova sulla montagna. È dappertutto e altrove, sempre altrove.
Nessuno era presente al momento della sua morte. In un certo senso, egli vive ancora in noi, in ognuno di noi. Perché, finché un figlio di Israele, da qualche parte, proclama la sua Legge e la sua verità, Mosè vive attraverso lui, in lui, come vive il cespuglio ardente, che consuma il cuore degli uomini senza consumare la loro fede Da “CORAGGIO, non temete!”
Carlo Maria Martini
Mosè muore, termina il suo cammino, non entra nella terra e con lui finisce l’epoca della Torah.
Eppure c’è un successore, Giosuè, che porterà il suo spirito.
Quale messaggio per noi?
Abbiamo bisogno di riflettere in maniera umile e critica e abbiamo bisogno di coltivare la certezza che le rotture nella storia vanno insieme alle continuità. E noi, affidati alle mani di Dio, non temiamo le rotture ma confidiamo nella continuità del disegno divino. In qualche maniera, come Mosè, affidiamo a Dio il suo popolo nella certezza che provvederà a essergli vicino anche nel terzo millennio, a portarlo verso la Terra.
Siamo di fronte a questa Terra nella quale stiamo per entrare tra poche ore. Siamo nella stessa situazione di attesa del popolo di Dio al momento della morte di Mosè; in attesa di ciò che sperimenteremo nel culmine del nostro pellegrinaggio, a Gerusalemme. Sappiamo però, proprio grazie alle pagine bibliche e allo spirito critico con cui ci inducono a considerare la storia, che quanto vivremo nella Terra promessa non sazierà la nostra attesa.
Noi rimarremo sempre, come rimane il popolo intorno a Mosè, simbolicamente nell’area, nell’anticamera del desiderio.
Potremmo forse dire, con qualche audacia, che neppure l’attesa di Israele come popolo si sazia del possesso della Terra promessa. Tutto si gioca sempre in un simbolo di qualcosa di più Alto, di qualcosa di Altro. Anche il nostro pellegrinaggio è simbolo non del raggiungimento di una mèta fisica, ma del nostro essere creati per riposare in Dio soltanto, secondo l’espressione bellissima di Agostino: «Ci hai fatto per Te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni 1,1).
Tutti i passaggi, tutte le successive conquiste di terre che avrebbero dovuto saziare il nostro desiderio, non l’hanno saziato. Siamo così riconvocati dalla contemplazione di Mosè che, non avendo potuto saziare il suo desiderio, si abbandona a Dio con la certezza che la continuità del tempo si sazia con la pienezza dell’eternità, e soltanto allora sarà saziata pienamente la nostra sete di una Terra promessa e di un mondo nuovo….!
DELLA VERA E PERFETTA LETIZIA (Scritti di S. Francesco)
Lo stesso [fra Leonardo] riferì nello stesso luogo che un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria [degli Angeli], chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Questi rispose: «Ecco, sono pronto». «Scrivi – disse – quale è la vera letizia».
«Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che [sono entrati nell’Ordine] tutti i prelati d’oltralpe, arcivescovi e vescovi, e anche il re di Francia e il re d’Inghilterra; scrivi:non è vera letizia. Ancora, [si annuncia] che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, e inoltre che io ho ricevuto da Dio tanta grazia che risano gli infermi e faccio molti miracoli; io ti dico: in tutte queste cose non è vera letizia».
«Ma quale è la vera letizia?».
«Ecco, io torno da Perugia e a notte fonda arrivo qui, ed è tempo d’inverno fangoso e così freddo che all’estremità della tonaca si formano dei dondoli d’acqua fredda congelata, che mi percuotono continuamente le gambe, e da quelle ferite esce il sangue. E io tutto nel fango e nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo che ho picchiato e chiamato a lungo, viene un frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di andare in giro; non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”.
E io resto ancora davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei crociferi e chiedi là”.
Io ti dico che, se avrò avuto pazienza e non mi sarò inquietato, in questo è vera letizia e vera virtù e la salvezza dell’anima».