Corsi Biblici,  Qohelet

Qohelet

pdf50download50Anzitutto è importante farne una lettura parallela delle differenti traduzioni.

(VV 1-8)
Le prime parole del cap. 12 (conclusivo del libro) sono un invito a mantenersi legati a Dio nei giorni della giovinezza e del vigore, prima che subentri la vecchiaia.
Che senso ha questo invito? Non sembra più logico e più normale pensare a Dio quando ci si indebolisce?
Per Qohelet questo atteggiamento avrebbe il sapore dell’opportunismo e inoltre risulterebbe difficile far riferimento a Dio se non lo si è cercato e amato quando tutto funzionava.
Occorre mettere radici spirituali nella propria giovinezza.
Senza questa fede che aiuta a relativizzare le cose (vanità delle vanità …) che sapore avrebbe la vecchiaia?
Qui Qohelet lo desume con immagini molto crude ed esplicite. A volte è poetico ma è una poesia che intristisce.
Come pensiamo o viviamo noi la nostra vecchiaia?
(VV 9-14)
La seconda parte del cap. 12 è invece il vero e proprio epilogo. È il discepolo che
prende parte alla fine, dopo essere stato alla scuola del suo maestro Qohelet.
Il suo maestro! Chi era il suo maestro? Chi era, chi era veramente il suo maestro? Chi era
veramente colui che gli ha insegnato a vivere nel discepolato, che gli ha insegnato ad ascoltare e a rispondere, che gli ha trasmesso i contenuti in base ai quali tutta la sua vita è stata impostata, e quindi tutti i riferimenti che hanno dato un respiro vitale al seguito del suo cammino? Chi era veramente? E allo stesso tempo il discepolo è costretto a chiedersi: «Chi sono io? Chi sono veramente io, il discepolo di quel maestro?» Non c’è dubbio che la lettura del libro, in un modo o nell’altro, i un interrogativo analogo a questo lo ha proposto certamente anche a noi. Rispetto a un personaggio del genere, chi sono io? Che insegnamento è questo, che magistero è questo? E, dunque, quale discepolato è il mio? Quale ascolto il mio? Il Libro di Qohelet, oltretutto, in modo esemplare tra tutti i libri biblici, ci impedisce di restare soltanto dei lettori forse curiosi, o forse interessati a un’operazione di tipo culturale, per cui leggiamo e studiamo un testo letterario. Il Libro
di Qohelet immediatamente ci interpella, ci scuote, esige da noi una presa di posizione. Chi sono veramente io?
Qohelet fu un ricercatore onesto, coerente, abile nell’uso della parola. «Scrisse con onestà parole veritiere». E qui il discepolo vuole illustrare questa attività sapienziale, che si espresse attraverso l’uso della parola orale e addirittura attraverso la messa per iscritto di parole destinate a rimanere. A questo scopo il discepolo ricorre a un’immagine che ha due sfaccettature: l’immagine è quella del pastore e dell’attività pastorale. È assai interessante,qui, questo richiamo alla figura del pastore.
Fatto sta che il discepolo adesso sta sintetizzando tutta la sua riconoscenza verso il maestro, presentandocelo come il vero pastore. In realtà, l’anonimo discepolo, nella sua sobrietà, dimostra di essere anche lui abilissimo nell’uso delle parole. Non ha bisogno di diffondersi in chiacchiere; dice tre, quattro parole, e ha sistemato ogni cosa. Ebbene, il pastore usa il «pungolo»: in questo caso sono le parole con cui il pastore interviene per sospingere le pecore, tutte le pecore. Per ogni pecora c’è una parola, per ogni pecora c’è una chiamata, per ogni pecora c’è un nome, come dice anche Gesù (cf. Gv 10,3). Fatto sta che quella parola che serve a chiamare ogni pecora ha il valore di un pungolo. Queste sono parole che passano attraverso il rapporto diretto e il contatto immediato.
Così funziona il rapporto tra il maestro e il discepolo: il maestro parla e il discepolo ascolta, in un contesto dinamico. Il maestro preme, il maestro punge, il maestro urge, il maestro incalza, il maestro si prende cura del suo discepolo, come il pastore della sua pecora con il pungolo.
Di seguito il discepolo ha aggiunto che le parole dei saggi sono «come chiodi piantati». È il pastore che pianta dei «chiodi».
Questi sono dei paletti; egli li pianta in modo tale da costruire una ringhiera, o una staccionata, così da formare dei corridoi; predisponendo questo recinto, il pastore prepara quei passaggi che

1 costringono le pecore a passare una per una, incanalandosi nel corridoio per essere condotte, una per una, lì dove è necessario.
Questo avviene per certe operazioni, per esempio per la tosatura.
Dunque, il pastore prepara dei percorsi obbligati, piantando dei pali e legandoli insieme. E qui il nostro discepolo dice che «i detti delle collezioni» sono come i chiodi piantati dal pastore.
Insomma, tutto quel bagaglio di messaggi e di insegnamenti che abbiamo ereditato dagli autori antichi, costituisce per noi come una pista già tracciata, un corridoio lungo il quale siamo convogliati. Si tratta di una ricchezza trasmessa a noi come una preziosa eredità, che ci aiuta validamente a intravvedere la strada e a procedere innanzi, anche nei luoghi più impervii. Infatti, quale che sia il terreno lungo il quale si svolge il viaggio della nostra vita, scopriamo che già altri hanno tracciato un solco, hanno aperto una pista, hanno costruito una strada. Anche nel deserto c’è già un corridoio, appositamente predisposto per le pecore.
Sono versetti che ci fanno porre qualche domanda: chi sono stati i miei maestri nella vita? Quali paletti mi hanno messo, quale strada mi hanno tracciato?
Per Qohelet non è buona cosa credersi autodidatti dell’esistenza.
Anzi, solo crescendo davanti ad un maestro si può poi essere maestri per altri.
Importante notare la differenza tra il saggio e il pastore: vero maestro è colui che usa la sua sapienza non per affermare se stesso, ma per aiutare gli altri.
«Conclusione del discorso»: dopo che si è ascoltata ogni cosa, adesso, finito il corso scolastico abbiamo fatto un corso monografico sulla sapienza dell’antico presidente dell’assemblea, qualcuno potrebbe dire: «Lo sapevo già: ho frequentato un altro corso inutilmente! Non ho imparato niente di nuovo». Niente di nuovo? Tutto di nuovo: «Qui sta tutto l’uomo!».
Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male (12,14).
Tutto Dio attrae a sé, verso il suo segreto; «anche tutto ciò che è occulto, bene o male» va a cadere nel suo mistero.
È come se qui il discepolo, mentre chiude finalmente l’opera letteraria che sta pubblicando, dicesse a noi lo sta dicendo a quel suo figliolo, a quel suo discepolo destinatario immediato dello scritto, ma lo sta dicendo a tutti – che tutto di noi è strutturalmente rivolto verso il mistero di Dio: da lui proveniamo, a lui ritorniamo.
Siamo attirati da lui.