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Qohelet

download50pdf50LA GIOIA IN QOHELET
Nella ricerca di ciò che è buono, di ciò che è meglio fare in un’esistenza che rimane intrinsecamente vana e piena di dolori e preoccupazioni penose, Qoelet non ha dubbi che la cosa migliore sia saper ritagliare la propria parte quotidiana di godimento e di piacere, cercando di non sciupare gli attimi di vita che Dio ci dona. Molti richiami in questo senso scandiscono il libro, dall’inizio alla fine, dandoci l’impressione, se non altro per la frequenza con cui ricorrono, di essere alle prese con un messaggio sapienziale decisivo, un insegnamento a cui l’autore tiene particolarmente, un tema la cui giusta interpretazione apre una chiave del suo pensiero.
Esaminando, dunque, attentamente il suo pensiero profondo e complesso, ci chiediamo: in che senso Qoelet invita alla gioia? È evidente che qui non si ha a che fare con massime di sapore epicureo o con ritornelli proverbiali scontati: «Mangiamo e beviamo perché domani moriremo», come in Is 22,13, ripreso da 1Cor 15,32. Quella a cui egli ci invita non è la gioia che proviene da un ricco pranzo! Sembra, invece, che in essa ci sia dato di toccare l’espressione più bella della spiritualità dell’autore, che proprio in tali inviti condensa la sua più squisita offerta di sapienza. Alla luce di questi testi, infatti, Qoelet ci si rivela non come un pessimista, tetro e triste, ma come un uomo ben solido, delicatamente spirituale e ricco di umorismo, il quale, sapendo godere dei piaceri e della bellezza che questa vita può e sa offrire, proprio in questo modo assapora il gusto della sapienza (sapienza da sàpere = sentire il piacere; cf. Qo 2,9-10). Vi è gioia e gioia! Vi è piacere e piacere! Occorre affinare l’arte del discernere e poi cogliere e assaporare le gioie fugaci, ma purissime, che ogni giorno e in ogni tempo Dio concede sotto il sole. Qoelet ha fatto esperienza di piaceri e di divertimenti che lo hanno disgustato (Qo 2,1-3). Lo disgustano i banchetti in cui non si mangia al tempo dovuto, ma sregolatamente e per gozzovigliare (Qo 10,16-17). Risate sguaiate e senza senso, divertimenti rumorosi, droghe, «estasi» da discoteca, eccitazioni e ubriacature di ogni genere, non sono questi – ieri come oggi – dei tentativi di evadere dalla realtà, che, così com’è, non viene accettata?
Alla luce di queste massime si coglie una qualità e una sfumatura tutta particolare di gioia, che solo chi ha già un certo allenamento spirituale riesce ad apprezzare. In fondo, tutte le riflessioni di questo libro sono finalizzate a orientare il lettore a percepire questo certo buon gusto. L’offrire orientamenti per il discernimento accomuna Qohelet ai maestri antichi, che avevano già insistito, da parte loro, perché si imparasse a trascendere le apparenze, si avesse pazienza a esprimere giudizi, si sapesse attendere la fine di una cosa prima di valutarla (cf. Qo 7,8-10). «Anche fra il riso il cuore prova dolore – leggiamo in Pr 14,13 – e la gioia può finire in pena». In altri termini, la gioia di cui parla Qoelet, anche se è quella più concreta e semplice che si può trarre dal mangiare e il bere preso a suo tempo per il sostentamento, o dal piacere del rapporto coniugale con cui si stringe a sé la propria sposa o il proprio sposo, è una gioia seria, che fa sorridere, ma non ridere sguaiatamente. Si tratta di una gioia e di un piacere intimi del cuore: un’arte di vivere bene, nella condivisione con gli uomini.
Si tratta di flebili spiragli di luce, dai quali lasciarsi inondare nel tempo in cui Dio li concede.
«C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere» (Qo 3,4); c’è il «giorno triste» in cui è impossibile stare allegri e si deve riflettere (Qo 7,14). La gioia, infatti, non va idolatrata e cercata ovunque, anche dove essa è impossibile (Sir 7,34; Rm 12,15; 1Cor 12,26). Ma non si devono sciupare le occasioni che la rendono possibile, sapendo che è fragile, come un tenero fiore che sboccia nel deserto della vita, e perciò è un dono prezioso da accogliere con timore dalle mani di Dio, di cui approfittare.
È importante rilevare bene il luogo, il momento e il modo in cui essa germoglia. La gioia, come un fiore o un filo d’erba tra le zolle di terra, spunta silenziosamente tra la lucida consapevolezza degli affanni e dei dolori quotidiani, che risultano non essere altro se non uno sforzo inutile, un inseguimento del vento. In punta di piedi essa si affaccia e fa capolino nella percezione della nostra vita, mentre ci afferra la coscienza del limite prodotto dalla morte, che tutto vanifica, e da cui verremo sorpresi all’improvviso, e dopo la quale non si sa cosa avverrà. Le nostre gioie affiorano negli istanti attuali vissuti intensamente qui e adesso, lasciandosi alle spalle, senza rimpianti, le macerie di una vita ormai trascorsa, finita, perduta, eppure recuperata e ancora presente alla nostra memoria, come una materia, appunto, che in segreto plasma la gioia. Il sapiente sa che nulla di ciò che è stato vissuto può andare perduto, dal momento che «Dio ricerca ciò che è già passato» (Qo 3,15) Perciò: essa finisce oggi, hic et nunc, tra la memoria del passato e il pensiero dei molti giorni tenebrosi che ci aspettano nel futuro (Qo 11,8), che saranno terribili.
Se con lucida consapevolezza, però, li sapremo assumere anticipatamente, essi non ci sorprenderanno al loro arrivo, trovandoci impreparati. La morte che viene, se è liberamente accettata e assunta, è stimolo a vivere con pienezza la parte di gioia che oggi ci viene concessa sotto il sole.
Si è notato che l’autore presenta i suoi passaggi sulla gioia in una sequenza progressiva, con un crescendo che, passando per l’esaltazione del godere (Qo 8,15), giunge all’imperativo, al dovere di godere (Qo 9,7-9). I testi che ne parlano si fanno via via più drammatici: più cresce la consapevolezza dell’assurdità, della precarietà e della fatica della vita, più paradossalmente cresce il senso della sua ricchezza e bellezza, e si sanno apprezzare con immensa gratitudine le piccole gioie che Dio vi dissemina ogni giorno e la rendono un bene prezioso. In fondo, si tratta di un’esperienza elementare che ciascuno di noi fa, se messo alle strette e si trova in un contesto soffocante, senza facili scappatoie, come la cella di una prigione, o anche durante una camminata per ore in un deserto desolato: allora il minimo segno di vita, un insetto sul terreno screpolato dall’arsura, un filo d’erba o un fiore sbocciato prodigiosamente, vengono accolti con stupore e gioia immensa. Si deve passare attraverso tutta la lucida consapevolezza della durezza della vita per rendersi conto di quanto essa sia bella e buona.
La gioia di cui si parla è profonda perché interiore, ma si concretizza in piccoli piaceri, anche molto materiali, modesti e semplici, da afferrare in ogni momento: il gusto dei cibi, l’ebbrezza del vino, il profumo e la bellezza delle cose, lo stupore di fronte allo splendore della luce del sole. Ognuno di noi è invitato a trovare le sue piccole gioie quotidiane: l’incanto dei fiori, della vegetazione che germoglia anche senza che si sia seminato il seme, la meraviglia delle creature tutte, piccole e grandi, dei bimbi che nascono prodigiosamente (Qo 11,5). Colui che sa accontentarsi del frammento ritrova in esso il tutto, perché Dio, principio della gioia, gli ridona con essa anche tutto ciò a cui aveva rinunciato e che credeva di avere perduto.
Tratto da: F. ROSSI DE GASPERI, A. CARFAGNA; PRENDI IL LIBRO E MANGIA! Dall’esilio alla nuova alleanza: pietà, poesia, sapienza. EDB