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Qohelet

download50pdf50LA SAPIENZA IN QOHELET   IL VALORE DELL’ESPERIENZA
«Ho accresciuto la mia sapienza più di tutti coloro che furono prima di me, in Gerusalemme»: in 1,16 il Qohelet non dice di avere una sapienza diversa da quella dei suoi predecessori, ma soltanto una sapienza maggiore. Eppure l’epiloghista riconoscerà che il Qohelet fu più che un saggio (cf 12,9), un saggio speciale. In che cosa si distingue, perciò, l’epistemolo-
gia del Qohelet da quella dei saggi d’Israele?
A proposito delle parti più antiche del libro dei Proverbi (Pr 10-30) si è parlato a ragione di «ottimismo epistemologico» dei saggi: il loro approccio nei confronti della realtà è basato infatti sull’esperienza e, allo stesso tempo, sulla convinzione che tale esperienza ha un senso perché relativa a un ordine delle cose dietro al quale c’è Dio stesso. Resta così vera la nota affermazione di von Rad secondo il quale la sapienza in Israele implica «una conoscenza pratica delle leggi della vita e del mondo basata sull’esperienza» e l’indovinato slogan coniato dallo stesso autore, per il quale
«ci si deve guardare da una concezione della sapienza che vedrebbe il suo carattere essenziale nell’attività di una ragione autonoma nei confronti della fede. (…) Le esperienze del mondo erano sempre (per Israele) esperienze di Dio e le esperienze di Dio, esperienze del mondo». Vi è, infatti «nelle sentenze sapienziali una fiducia nella stabilità delle relazioni elementari tra uomo e uomo, una fiducia nella conformità degli uomini e delle loro relazioni, una fiducia nella costanza delle regole che reggono la vita umana, o di conseguenza, esplicitamente o implicitamente, una fiducia in Dio che ha messo in vigore queste regole».
L’esperienza dell’esilio contribuisce a mettere in crisi tale ottimismo epistemologico dei saggi, la loro ferma fiducia nel riuscire a scoprire una costante per orientarsi all’interno della molteplice esperienza umana. Non bisogna però dimenticare che tali saggi erano pienamente consapevoli dei limiti della loro sapienza, specialmente quando essa si confronta con Dio (cf. i testi di Pr 16,1; 16,9; 29,21; 20,24; 21,30-31). Queste due tendenze, l’ottimismo di fronte alle possibilità della conoscenza umana e la consapevolezza dei limiti della conoscenza stessa, coesistono così all’interno della tradizione sapienziale d’Israele.
Il problema nasce quando la crisi dell’esilio porta i saggi a riflettere sulla mancata corrispondenza tra esperienza e conoscenza, quando cioè l’ordine della realtà, che i saggi si sforzavano di scoprire e di comprendere, si mostra incomprensibile (è il caso di Giobbe) o addirittura inconoscibile (è il caso del Qohelet).
Esiste così uno scarto tra il mondo come lo vorrei, e allo stesso tempo come la fede nel Dio d’Israele mi porta a immaginarlo, e il mondo come realmente mi si presenta; in Giobbe e nel Qohelet questo scarto diviene drammatico.
Quando in 1,13 il nostro autore introduce, per la prima volta nel suo libro, il tema della sapienza, l’ascoltatore è portato a pensare che egli stia parlando della sapienza tradizionale del suo tempo, quella presentata in maniera autorevole proprio nella prima parte del libro dei Proverbi (Pr 1-9), nella forma definitiva in cui esso doveva ormai circolare nel III sec. a.C. Ben presto, però, la lettura del libro del Qohelet svela come la presentazione della sapienza sia fatta con una forte carica ironica; la sapienza è infatti un valore, ma non sulla linea di Pr 1-9; non è legata alla Legge e non è legata alla persona di Dio; paradossalmente, la sapienza è per il Qohelet un valore solo quando è in grado di riconoscere, davanti all’opera di Dio (cf. 8,16-17!), il proprio limite invalicabile. Anche in relazione all’epistemologia, pertanto, il Qohelet si serve dell’ironia: essa non ha lo scopo di demolire gli avversari, ma, come già nella sapienza rispecchiata nei Proverbi, serve, nel momento stesso in cui colpisce e ferisce, a illuminare e a far riflettere chi ne è colpito, decostruendo inoltre l’illusoria pretesa dell’uomo di poter conoscere e spiegare tutto.
SAPIENZA E LIMITE
Il Qohelet, come si è accennato, scrive in un’epoca nella quale l’insegnamento degli anziani non è più sentito come un elemento infallibile e al riguardo del quale si può parlare di una vera e propria crisi epistemologica, provocata dall’esperienza dell’esilio. Ne è prova il testo di Pr 1-9, che si sforza di presentare come le «sette colonne della casa della sapienza» (cf. Pr 9,1) siano proprio l’insegnamento tradizionale dei saggi, dal re Salomone (Pr 10,1) a Ezechia (Pr 25,1). Non è un caso che, a partire dagli inizi del IV sec. a.C., in Israele scompaia la storiografia; l’opera del Cronista è, in realtà, il rifacimento ideologico (o teologico, se si vuole) di un’opera precedente, la grande storia deuteronomista da poco ormai completata. Se la tradizione enochica e apocalittica cercherà una soluzione a tale crisi epistemologica nei sogni, nelle visioni e nelle rivelazioni celesti, tendenza documentabile già prima del IV sec. a.C., il Qohelet riafferma, sia contro la soluzione apocalittica, sia contro la soluzione attestata dalla prima parte dei Proverbi, il valore di una conoscenza esperienziale e razionale della realtà, nella quale sogni e visioni non hanno alcun posto e nella quale anche i valori più tradizionali vengono sottoposti a una critica radicale, quando – come spesso accade – non sono suffragati dall’ esperienza. I saggi che stanno dietro a Pr 1-9 si chiedono: come posso conoscere questo? E rispondono: perché l’ho imparato, e perché l’esperienza me lo ha confermato.
Il Qohelet si chiede la stessa cosa: come posso conoscere questo? Ma risponde: lo conosco perché l’ho visto!”
In conclusione, a proposito dell’epistemologia del Qohelet si può continuare a parlare di scetticismo epistemologico, ma unicamente nel senso che il nostro autore critica l’ottimismo dei saggi e la loro fiducia di scoprire, con la sapienza, il senso delle cose e l’ordine della realtà; egli critica anche l’idea che la sapienza sia un qualcosa di pienamente accessibile all’uomo, magari la Signora Sapienza, collegata con Dio stesso. Proprio Dio, o meglio la sua opera nel mondo, costituisce per il Qohelet il vero limite di ogni sapienza umana; la sapienza resta così un valore per l’uomo, ma non può penetrare il mistero dell’opera di Dio. Neppure tale limite epistemologico toglie però al Qohelet la voglia di cercare, di proseguire in quel compito che Dio’ stesso ha affidato all’uomo (1,13; 3,10-11); l’intero campo dell’ esperienza umana «sotto il sole» resta aperto alla ricerca della sapienza: questo non è davvero l’atteggiamento di uno scettico!
(tratto da LUCA MAZZINGHI, Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, EDB)