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Esodo

download50Cap. 2,23 – 3,3pdf50
Note introduttive
– Il tema che unifica questi testi è dato da quella esperienza fondamentale nella vicenda di Mosè che fu la sua vocazione, avvenuta nei pressi del « monte di Dio» (cfr. Es. 3,1).
– Il « monte di Dio» viene menzionato nell’Antico Testamento secondo una duplice denominazione.
Esso ha nome Sinai nella tradizione jahvista, seguita da quella sacerdotale, mentre le tradizioni deuteronomista e elohista preferiscono chiamarlo Oreb (cfr.3,1). Può anche darsi che «Oreb» fosse il nome proprio attribuito al «monte di Dio» nella regione nota come «deserto del Sinai» (cfr.19,1.2; ecc.), oppure come «zona montuosa del Sinai» (cfr.19,11.18.20.23; 24,16; ecc.). Si trattava forse di una località che già possedeva un particolare valore di sacralità per le popolazioni madianite, presso le quali Mosè stava soggiornando. Essa è da collocare nella parte meridionale dell’attuale penisola sinaitica.
– Quale fatto storico stia alla base dei racconti della vocazione di Mosè è difficile dire con sicurezza.
È certo, comunque, che un certo giorno la vita di Mosè maturò una netta trasformazione, e che il suo impegno a vantaggio dei fratelli oppressi in Egitto assunse una nuova dimensione missionaria
INDICAZIONI PER UNA LETTURA SPIRITUALE
Il grido dei poveri
La morte del re d’Egitto (cfr. Es. 2,23) non muta per nulla la sorte degli Ebrei, che il lavoro oppressivo da tanto tempo ormai ha reso schiavi di qualunque padrone. Essi sono davvero dei miserabili, senza volto e senza speranza. Né sulle loro labbra spuntano parole o invocazioni, che siano in grado di esprimere una qualche consapevolezza della loro situazione. Il racconto biblico ci parla soltanto di un « gemito », sommesso e profondo, che si eleva progressivamente, fino a raggiungere l’acutezza di un « grido» disperato (cfr. 2,23). È questa l’espressione di una sofferenza indicibile, di una «schiavitù» priva di sbocchi.
Con questi pochi tratti si delinea quella che è la condizione dei poveri; sembra quasi che gli Ebrei in Egitto incarnino nella loro vicenda ciò che definisce l’esperienza dei poveri di tutti i tempi. In realtà il racconto biblico assume qui, a conclusione del cap.2, un andamento quasi solenne, che serve a conferire a questa pagina il valore di un insegnamento universale: un insegnamento valido, cioè, per comprendere il modo di procedere della Storia della Salvezza in quanto tale. Dalla Sacra Scrittura, infatti, non emerge mai un discorso di salvezza, che non parta da coloro che sono poveri; tal povertà non è soltanto, o necessariamente, quella che si esplicita nel peccato: essa è la povertà di coloro che sono psicologicamente smarriti, spiritualmente schiacciati … di coloro che non riescono più a trovare in sé e attorno a sé una forza di liberazione.
Fraintenderemmo i vv. 23-25 del cap. 2, se pensassimo che in essi si annunci la potenza della preghiera, che sale verso Dio. Infatti, vi si dice semplicemente che « gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù e alzarono grida di lamento» (2,23). Essi, dunque, non pregano: hanno ben altro da pensare che mettersi a pregare Dio, e il loro lamento è un puro grido di sofferenza e di povertà. Eppure il testo biblico prosegue dicendo che «il loro grido dalla schiavitù salì a Dio» (2,23): dove qualcuno urla per il dolore o si dibatte disperatamente per non rimanere soffocato dall’ingiustizia, là Dio è presente con uno sguardo di comprensione e di pietà; dove qualcuno è stretto dalla paralisi della propria ineludibile povertà, là Dio ascolta il suo grido e si prende a cuore la sua situazione. «Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (2,24s.).
È questo il momento in cui il racconto dell’Esodo affronta la sua svolta decisiva; tutto quel che seguirà sta appeso ad un enunciato che ha, in certo modo, valore di principio assoluto: Dio non abbandona mai i poveri. Da sempre, infatti, il suo sguardo, il suo ascolto, la sua partecipazione affettiva, gli ricordano nel corso del tempo ciò che egli ha promesso ai patriarchi « Abramo e Giacobbe ». E il Signore non può mancare di fedeltà alla propria parola. Anzi, nessuno mai può pensare di realizzare in proprio iniziative di liberazione, perché soltanto il Signore è in grado di far sì che le sue promesse giungano a compimento. Noi riusciamo soltanto a lamentarci, come dei poveri che gridano al vento; e soltanto Dio, allora, opera fedelmente le meraviglie, che da sempre la sua parola ci ha preannunciate e di cui noi abbiamo perso il ricordo.
Il roveto che non si consuma
La narrazione biblica ritrova Mosè presso il « monte di Dio, oltre il deserto », dove sta pascolando «il gregge di Ietro, suo suocero » (cfr. 3,1). Per lunghi anni (la tradizione ci parla di un periodo di ben 40 anni) egli ha vissuto come straniero in casa del suocero ed ha imparato a pascolare il gregge altrui…
E per lunghi anni, giorno dopo giorno, Mosè si è sentito consumare, bruciato lentamente dal silenzio che cancella i ricordi, e schiacciato dalla solitudine che uccide ogni speranza. Sono stati anni occupati da una prolungata ed intensissima meditazione: ha visto scomporsi sotto i suoi occhi, punto per punto, il disegno in base al quale aveva progettato la sua vita, finché non gli è rimasto altro che quel suo lento consumarsi di ogni giorno.
Ed ecco che, presso il «monte di Dio », mentre osserva un roveto che brucia (cfr. 3,2), Mosè scopre improvvisamente qualcosa che lo butta in faccia ad un mistero non ancora sondato. C’è qualcosa dentro di lui che – malgrado tutto – non viene meno: al fondo della sua intera esperienza di uomo ormai finito e di condottiero mancato, Mosè avverte una presenza che non si consuma. Egli scopre dentro di sé l’ardore di una fiamma che brucia senza consumarsi, come una passione, quieta e profondissima, che sia in grado di trarre nuova forza dal suo stesso bruciare. Ma Mosè ancora non capisce bene: sente come se nel suo spegnersi di ogni giorno si manifestasse la solidità di una presenza che rimane viva. Mosè non capisce: è come se la passione che lo divora brillasse di nuovo vigore, man mano che egli si sente sprofondare nel buio della delusione. Mosè non capisce ancora: è come se il suo amore per la giustizia e per il suo popolo si ravvivasse, man mano che egli si sente invecchiare e morire. Mosè non capisce ancora e pensa: «Voglio avvicinarmi e vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non si consuma? » (3,3)