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Qohelet

download50pdf50HO CERCATO E HO ESPLORATO: parole sul Qohelet

STRUTTURA DEL LIBRO
Titolo (1,1)
Prologo (1,2-11)
A/ Prima parte (1,12-6.12)
a) Investigazione analitica (1,12-6,9) (scandita dal ritornello “tutto è vanità”, che si ripete con lievi varianti nove volte: 1, 14.17; 2,11.17.26; 4,4.6.16; 6,9; la sentenza glaciale non ricorre più in seguito nel libro; anche il termine fatica ritorna qui più volte (25), e poco altrove; questa parte è quella più conseguente e perentoria)
b) Conclusione sintetica (6,10-12, da taluni spostata all’inizio della sezione seconda)
B/ Seconda parte (7,1-11,6)
a) L’uomo non può scoprire quello che conviene fare (7,1-8,17)
b) L’uomo non sa quello che verrà dopo ((9,1-11,6)
Poema sulla gioventù e la vecchiaia (11,7-12,8)
Epilogo (12,9-14)
Qohelet è un piccolo libro di dodici capitoli, [scritto probabilmente intorno alla metà del III secolo a.C. un libro non precedente al postesilio] una perla dalla cui luce misteriosa siamo invitati a lasciarci affascinare, una musica da far risuonare con la sua bellezza enigmatica, malinconica, allegra e struggente insie-me. “Qohelet non è un trattato. Non si può riassumere una musica, né ricevere come una confidenza o una testi-monianza ciò che non porta alcun segno di esserlo”.
Che il libro, comunque lo si sfogli, sfugga di mano è una realtà testimoniata dai molti studiosi e ricercatori che di esso ci offrono le più svariate interpretazioni, muovendosi da un polo interpretativo a un altro, di senso appa-rentemente opposto. La visione di un pessimista? Di un ottimista? Un inno alla gioia? Un inno alla caducità del-la vita? Una contestazione sapienziale? Una visione laica del mondo? …
Qohelet rimane lì, umilmente disponibile, aperto e alla portata di chiunque lo voglia leggere, come sfida a ogni intelligenza che, comunque si sforzi di comprenderlo, non può non sentirsene profondamente provocata. Forse solamente così esso raggiunge il suo scopo. Non vi è opera squisitamente sapienziale di quella che, consegnata a tutte le generazioni di lettori, sappia essere per loro stimolo, pungolo, nel cammino dell’esistenza (Qo 12, 11)
«Qohelet» stesso è un nome pieno di mistero. [ Il nome è un participio femminile (qal) della radice QHL, attestata solamente nella forma causativa (hifil = convocare un’assemblea) o riflessiva (piel = adunarsi in assemblea). Il senso esatto del nome ci sfugge. La LXX traduce Ekklêsiastês, traduzione ripresa dal latino e quindi dall’italiano, in cui il libro è citato anche come l’”Ecclesiaste”. Ma anche questo nome, pur riprendendo l’idea dell’assemblea (dal greco ekklêsia), è di difficile comprensione, segno che i traduttori greci non capivano esattamente il senso del termine ebraico. Lutero traduce l’interpretazione antica con “der Prediger”, il Predicatore, cioè come “colui che parla in assemblea”. Il termine, però, può alludere più genericamente a un mem-bro dell’assemblea, non è chiaro se con la funzione di chi vi parla o di chi vi partecipa. Qoelet è un termine il cui significato oscillerebbe tra un nome proprio e una funzione, quella di qualcuno (o qualcuna?) che prende la parola nell’assemblea, per darle voce. Cf. SACCHI, Qoelet, 10-13.]
Tanto più che esso viene identificato con Salomone: «Parole di Qohelet, figlio di Davide, re di Gerusalern-me» (Qo l,l; cf. v.12). Si sa che il re aveva il ruolo di rappresentare il popolo nel suo insieme. Qui Salomone darebbe espressione ai sentimenti più inquietanti del suo popolo, dell’animo di ogni uomo. Vi è chi propone in modo suggestivo di tradurre Qohelet con “Pubblico”. Qohelet sarebbe allora una sorta di personificazio-ne dell’uditorio. Colui che normalmente ascolta e riceve passivamente le lezioni di un altro si metterebbe personalmente a interloquire? In fondo, il libro non esprime forse la percezione del comune uomo della strada, cioè di ciascuno di noi nei confronti della realtà? Quanti di noi non si ritrovano, almeno una volta nella vita o in ogni giorno di essa, in momenti di maggiore lucidità e di distacco o di interiore raccoglimen-to, pur nella stanchezza quotidiana e non necessariamente ancora giunti al tramonto della vecchiaia, a sospi-rare o singhiozzare come Qohelet? L’ideale, anzi, per il lettore sarebbe di arri-vare a sintonizzarsi con que-sto linguaggio spezzato, come appunto qualcuno che singhiozzi; un linguaggio che, benché enigmatico, si presenta come quello di un grande sapiente e maestro di sapienza (Qo 12,9-12). Per questo la proposta del libro rimane attualissima e contemporanea a ogni uomo e donna sulla faccia della terra. In fondo, ciascuno di noi è Qoelet. E a ragione l’epiloghista alla fine lo tratteggia oltre che come uomo (o donna?) di grande e profonda scienza, anche come un autore a cui non si deve togliere né aggiungere nulla (Qo 12,12). È già aperto in modo indefinito a tutte le letture, tante quanti sono gli uomini e le donne della terra, invitati cia-scuno ad apportarvi il proprio punto di vista, la propria interpretazione, perché si possa pensare di togliervi o aggiungervi qualche cosa. [Ci piace riportare un passo illuminante di Roland Barthes sul senso della scrittura, che attingiamo da B. SALVARANI, C’era una volta un re… Salomone che scrisse il Qoelet, Paoline, Milano 1998, 126-127 ( cit. da U. Eco secondo la nota 4, a p. 134): “Scrivere vuol dire far vacillare il senso del mondo, disporvi una interrogazione indiret-ta alla quale lo scrittore, per un’ultima indeterminazione, si astiene dal rispondere. La rispo-sta è data da ciascuno di noi, che vi apporta con la sua storia, il suo linguaggio, la sua libertà; ma poiché storia, linguaggio e libertà cambiano all’infinito, la risposta del mondo allo scritto-re è infinita: non si cessa mai di rispondere a ciò che è stato scritto al di là di ogni risposta: affermàti, poi messi in contraddizione, quindi rimpiazzati, i sensi passano, la domanda rima-ne…”. Nella stessa nota 4, Salvarani riporta anche P. Ricoeur: “Un’opera non è mai finita. Di-pende solo dai lettori farne un’opera completa. Tutte le opere del passato possono allora di-venire contemporanee, attraverso un nuovo atto di lettura… Il problema è di non trasformar-le in un museo, un museo narrativo. È necessario ritrovare il carattere potenziale di un’opera, il carattere incompiuto, il fatto che il suo senso è ancora in sospeso e che sono le nuove let-ture che gli daranno un senso nuovo. Non credo alla morte del raccontare…”. Anche noi non ci collochiamo qui davanti all’opera biblica a partire da queste premesse metodologiche.]
Se il pubblico prende la parola e dice francamente ciò che ciascuno intimamente pensa senza spesso poterlo dire -per non nuocere a una certa facciata faticosamente costruita, a un ruolo sociale prestigioso che si gio-ca, a una posizione rassicurante che si occupa- esso, d’altra parte, non ha facili risoluzioni. Enuncia mille perplessità, osserva e studia con lucidità implacabile l’assurdità e l’inconsistenza delle cose, di tutto quanto accade sotto il sole, ove gli ingranaggi delle vicende sono fuori controllo, schegge impazzite di un organi-smo senza capo né coda, ove l’apparenza è che tutto sia dominato dal caso. Qohelet non ha risposte, fa do-mande e rimane in attesa di chi, un giorno, saprà dargliene spiegazione. VANITA’ DELLE VANITA’?
A
“tale è il libro di Qohelet: un autore, forse l’unico, che sia tra tutti un vero ateo. La sua religiosità è a mio avviso (…) tutta di comportamento strategico (…). Qohelet è dunque uno che combatte dall’interno, a piena carica, quanto ogni pessimista della terra mai si è sognato o si sognerà”.
B
“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato”.
(E. MONTALE, Ossi di seppia)
Molte sentenze del libro si potrebbero forse rendere in forma interrogativa. A cominciare dalla proposizione iniziale e finale, riconosciuta come l’inclusione che contiene in concentrato l’intero libretto (Qo 1,2; 12,8):
“Vanità delle vanità (habel habalim), dice Qohelet, . vanità delle vanità, tutto è vanità?»
[È interessante la lettura che di questo versetto dava il Baal Shem Tov (il fondatore del movimento chassidico), così come viene riportata da Abraham Jashua Heschel: “ Il Baal Shem esortava ad apprezzare molto tutto quanto esiste. In che altro modo potremmo avvicinarci al Creatore, se non attraverso le cose da lui fatte? È assoluta-mente impossibile venerare lui e allo stesso tempo disprezzare la sua creazione. Ciò che determina la nostra scelta di un gruppo umano è proprio questo: amiamo oppure odiamo, proviamo riverenza oppure rancore verso il mondo, gli uomini, le cose. L’uomo deve avere caro il mondo , diceva Baal Shem. Deprecarlo o deriderlo, per lui era pre-sunzione. La creazione, tutta la creazione, è pervasa di dignità e significanza ed è parte del volere divino. “Vanità delle vanità”, dice l’Ecclesiaste “vanità delle vanità, tutto è vanità”. L’interpretazione che il Baal Shem dava di queste parole è la se-guente: il versetto deve essere diviso in due parti, l’asserzione dell’Ecclesiaste che tutto è vanità, e la sua acuta confutazione. “Sostieni che tutto è vanità, o Ecclesia-ste? Allora anche quanto tu dici è vanità”. Ma chi mai oserebbe affermare che il mondo creato da Dio è vanità, che ogni atto buono, ogni sentimento di amore e di fe-de non sono che vanità?ci voleva il genio del Baal Shem per togliere ogni tetraggine all’adorazione. La malinconia dell’uomo era per lui un affronto a Dio” (A. J. HESCHEL, Passione di verità, trad. dall’inglese di L. Theodoli, Rusconi, Milano 1977, 31)] .
Qohelet è un sapiente autentico (Qo 12,9), proprio perché non ha certezze e imposta le proprie affermazioni in un dialogo incessante con gli uomini, con i quali condivide l’insaziabile brama di senso e di verità.
Per quanto si rimanga sorpresi su come mai un tale libretto possa essere capitato nel canone sacro. [Nella tradizione ebraica Qoelet è uno dei cinque rotoli (Mᵉghillot) e viene letto in occasio-ne della solennità delle Capanne. Ci si domanda che cosa abbia motivato i rabbini ad acco-stare la lettura del Qoelet a tale festa, una delle tre feste di pellegrinaggio a Gerusalem-me (le altre due sono Pesach e Shaḇu῾oth: Dt 16,1- 17). Una delle ragioni può essere il fatto che nella festa autunnale di Sukkoth (= capanne) viene rievocato il tempo delle peregrina-zioni di Israele nel deserto durante l’esodo dall’Egitto. La precarietà delle condizioni del viaggio è significata appunto dalla costruzione di una capanna, in cui gli ebrei sono invitati a dimorare, almeno nel tempo in cui quotidianamente si raccolgono per rendere insieme il ci-bo, uscendo per sette giorni dalla propria casa. D’altra parte, Sukkot è una celebrazione assai gioiosa, culminando nell’ultimo giorno con l’esplosione festiva della festa di Simchath Torah (= la gioia della Torah), durante la quale il popolo esulta, cantando e danzando senza posa, stringendo tra le braccia i rotoli sacri. Memoria della fugacità e precarietà dell’esi-stenza da una parte e, dall’altra, consistenza della Torah, dono del Signore, unica perma-nente dimora dell’uomo e della creazione tutta, un dono che rallegra il cuore ed è la sor-gente delle piccole gioie da non lasciarsi sfuggire durante la limitata azione quotidiana: so-no questi i due poli della solennità ebraica. E questi, come cercheremo di mostrare meglio nel seguito della lettura, sembrano anche i poli entro cui è racchiusa la meditazione del no-stro libro] il suo tono non è una novità assoluta.
Il pensiero di Qoelet è impalpabile come il vento, sfuggente come il soffio, lo hebel, che non per nulla ne costituisce l’impalcatura. Hebel è un termine attestato 73 volte nell’Antico Testamento, di cui ben 38 ri-correnze solo in Qoelet. Non sembra adeguatamente tradotto con «vanità», termine affine a «vuoto», ma con una certa tendenza all’astrazione. Tra tutte le traduzioni proposte, preferiamo quella più prossima all’etimologia originaria, cioè «soffio o alito vapore acqueo». Vi è l’idea di ciò che è fugace, effimero, sfuggente ma anche misterioso, come il vento, che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene, e dove va» (Gv 3,8). Come tale, non si può ravvisare una qualche, leggera affinità tra hebel e ruach, «vento, soffio, spirito»?
Ci sembra che Qoelet sia comunque un figlio della sua tradizione, nel cui solco si iscrive l’orizzonte pro-prio delle sue affermazioni. Se non altro, tale è stato ritenuto da coloro che lo hanno accolto come parola di Dio, inserendolo nel canone sacro. Come i predecessori, egli si esprime in modo assai concreto. For-se nell’utilizzare tanto la radice hebel non gli era estranea la memoria di Abele (in ebraico Hebel), l’uomo ucciso dal fratello, Caino, la cui vita prematuramente stroncata si è rivelata effettivamente inconsistente come un soffio (Gen 4,2-8.25).