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Esodo

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Cap 2, 15b-20 (cfr At 7, 29)pdf50
Lo schema era molto semplice: io, Mosè, sono stato educato nella libertà, io so che cosa significa la libertà; vado dunque dai miei fratelli, propongo loro questa libertà, pago il prezzo di questa libertà, e i miei fratelli capiranno che cos’è la libertà, mi acclameranno loro capo, noi marceremo tutti insieme. Ma tutto questo è soltanto un progetto, un pensiero.
Che cosa non ha funzionato in questo progetto? Mosè non si è fatto un’idea reale della resistenza dei suoi fratelli nel volere la libertà; non ci ha pensato, non entrava nel suo schema logico: ed eccolo allora nello scacco. I vv. 27-29 descrivono meravigliosamente il crollo totale di Mosè, di un uomo che con generosità immensa aveva rinunciato a tutti i privilegi per farsi povero con i poveri, per farsi oppresso con gli oppressi. La Bibbia ci descrive in maniera finissima come Mosè fa fiasco con i suoi fratelli, i quali non lo riconoscono, anzi gli dicono: «Chi ti ha detto di occuparti di noi? Non ci interessi! ». E così viene respinto proprio da coloro ai quali pensava di dover insegnare qualcosa, di portare la dottrina giusta.
Scacco anche nei confronti del faraone, col quale ha tagliato i ponti e ha paura di essere da lui ricercato. Scacco perfino con se stesso: Mosè non è più nessuno. Il v. 29 è veramente drammatico: «Fuggì Mosè all’udire questa parola e divenne straniero nella terra di Madian» (egeneto paroikos, dice il testo greco). Ecco Mosè, il coraggioso, divenuto pauroso; l’uomo che aveva saputo esporsi senza alcun ritegno cerca di salvare la pelle; ha davvero perso la testa: gli preme solo scappare il più in fretta possibile. L’uomo che è stato prototipo dell’impegno per gli altri, si preoccupa ora solo di sé.
«Divenne straniero »: noi sappiamo che cosa questo voleva dire per il mondo antico-orientale, e ancora oggi che cosa vuol dire per l’oriente. Vuol dire perdere tutti i diritti di uomo, perché lo straniero, non essendo tra gente che ha con lui legami familiari, non ha nessuno che lo vendichi, è alla mercè di chiunque, non ha più nessun diritto.
Mosè, partito da una posizione di privilegio, alla quale aveva rinunciato volentieri pur di entrare nel vivo dell’esistenza del suo popolo, ora viene scacciato: il suo stesso popolo lo respinge. Ormai Mosè non è altro che un poveretto impaurito, che nella notte e nel deserto ogni stormire di fronda fa trasalire. Ecco cosa ne è del coraggioso, di colui che sapeva, che conosceva i metodi, perché era potente in parole e in opere.
L’ultimo versetto ci dà un tratto molto interessante: «Mosè si rifugiò in Madian, dove ebbe due figli». Qui potremmo chiederci cosa c’entra che « ebbe due figli ». Come mai gli Atti, che riportano elementi ben attinenti alla scena, aggiungono questo fatto, che ebbe due figli? Ho l’impressione che qui il testo voglia dire che Mosè si è seduto e ha detto: basta con le grandi idee e le grandi imprese, basta con la politica; tutti i miei sogni di liberatore sono finiti; ho diritto anch’io alla mia vita. Mosè ha voluto cercare un piccolo luogo tranquillo per dimenticare il passato e quelle amare esperienze che mai avrebbe immaginato di incontrare. Ecco il secondo periodo della vita di Mosè.
Cerchiamo di vederlo più da vicino questo momento, chiedendoci quale sia stata la preparazione dispositiva che il Signore ha operato gradualmente in Mosè, durante questi 40 anni nel deserto di Madian. E poiché Mosè ci è diventato più familiare, più vicino alla nostra esperienza, possiamo chiedere a lui che cosa abbia fatto in quei 40 anni nel deserto, come passava il tempo, la notte quando non dormiva cosa pensava, perché si è rifugiato nel deserto invece di darsi al commercio e ai viaggi.
A queste domande risponde Gregorio Nisseno. Sappiamo dalla Bibbia (cfr. Es. 2, 16-20) che quando Mosè arriva nella terra di Madian si incontra con le figlie di Jetro e le aiuta – è sempre generoso Mosè -; allora questo sacerdote dall’occhio fine lo apprezza, lo rivaluta, lo rilancia e gli dà in sposa una delle sue figlie. Dice Gregorio: «Jetro gli concesse la scelta di fare quel genere di vita che voleva, e Mosè scelse la solitudine ». Forse Gregorio parlava di sé: dopo tante esperienze difficili, l’amare alla solitudine in lui era ormai un’acquisizione certa.
Alle nostre domande, dunque, si può ritenere che Mosè avrebbe risposto così: «Che cosa ho fatto per 40 anni nel deserto? Ho accettato la solitudine, anzi l’ho scelta, secondo il consiglio di Gregorio». Mosè non ha temuto la solitudine.
Quando c’è un vuoto nella vita
Qui apro una parentesi. È noto che esiste una differenza tra isolamento e solitudine. L’isolamento come tale ha un carattere negativo: è l’uomo che vive disperatamente solo, magari in mezzo alla gente, ove comunque si sente non compreso e fallito; al contrario, la solitudine per ogni uomo, anche per l’uomo moderno, è un valore fondamentale. Ciò vuol dire che c’è un momento in cui l’uomo giunge a riconoscere che niente lo soddisfa davvero, che tutti i suoi metodi, tutte le sue esperienze, tutte le sue speranze lo hanno soddisfatto solo fino a un certo punto: rimane ancora un vuoto, un vuoto che soltanto Dio può colmare. È un’esperienza che non si fa quando ancora le cose si accavallano una sull’altra e si continua a sperare che ciascuna di esse riempia quel vuoto. Ma quando sopravviene lo scacco, allora ci si viene a trovare in quello stato di attesa e di vigilanza che fu lo stato di Mosè per 40 anni. Si tratta di imparare ad aspettare Dio: «I miei tentativi non hanno avuto successo; il Signore farà! ».
Mosè non spera più in se stesso, nei suoi metodi, nelle sue capacità, né nelle capacità di risposta dei suoi fratelli. Forse in un primo tempo Mosè li avrà ricoperti di improperi, li avrà lapidati in tutti i modi. Ma poi, riflettendo, avrà dovuto concludere:
« Abbiamo sbagliato tutti quanti; anche io ho fatto degli sbagli, sono stato troppo pretenzioso; ho lasciato il faraone, però speravo di diventare anch’io un capo; non è del tutto ingiusto che le cose siano andate così, perché in fondo volevo ottenere la mia gloria e il mio popolo sarebbe stato il mio monumento ».
Ed ecco la solitudine di Mosè. Egli lascia che tutta la delusione, il dolore, la rabbia vengano a galla; non maschera né sopprime tutte queste cose, ma anzi le affronta, perché non ha più paura di guardare nella sua vita. Mosè si ritrova allora in una situazione analoga a quella vissuta nel primo libro dei Re da un altro grande profeta, il profeta che gli sta di fronte, insieme con Gesù, sul monte della Trasfigurazione: Elia. Diversamente da Mosè, Elia aveva avuto un grande successo: aveva vinto i profeti di Baal sul monte Carmelo con un gesto spettacolare; sembrava perciò che fosse giunto al culmine della sua potenza. Ma la Bibbia ci mostra subito dopo che il grande e coraggioso Elia, che aveva sfidato i 400 profeti di Baal, ha paura e scappa. Teme che lo uccidano, e fugge talmente veloce che lascia indietro il suo servo e s’inoltra nel deserto; dopo una giornata di cammino si siede sotto un ginepro, desideroso di morire, e dice: «Ora basta, Signore, prendi la mia vita perché non sono migliore dei miei padri» (cfr. 1 Re 18-19). Credeva di essere di più degli altri, ma poi si ricrede e con sincerità si libera della sua amarezza. A Mosè capita la stessa cosa. Ed ecco che, nella situazione in cui si trova, gradatamente emerge la preghiera, quello spirito di supplica che si ritrova nel salmo 31, che chiamerei la preghiera di Mosè nel deserto. Mosè comincia a capire che c’è stato un piano nella sua vita, però questo piano non riguarda soltanto lui, ma anche Jahvé. E lui non aveva mai pensato che l’opera sua fosse opera di Jahvé. La concepiva soltanto come opera sua, fino a che gli si era spezzata tra le mani. Ed eccolo davanti a Jahvé in preghiera, in umiltà, mentre dice: «Signore, che cosa significa tutto questo? Perché mi hai fatto giungere a questo punto? Se vuoi, fammelo sapere ».
Da “VITA DI MOSÉ” CARD. CARLO M. MARTINI