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Esodo

PASQUA E LIBERTA’                                                                          pdf50    download50

IL SACRIFICIO PASQUALE
Il pesah o sacrificio pasquale ha tutte le caratteristiche di un antico rito praticato fin da tempo immemorabile dai pastori nomadi, antenati di Israele.
Questa antica costumanza pastorale si prestava bene ad una reinterpretazione in chiave della liberazione dall’Egitto. Gli Israeliti erano in procinto di mettersi in viaggio, come i loro antenati lo erano stati di anno in anno, proprio in quella stagione; ma questa volta era un viaggio diverso, non si trattava semplicemente di incamminarsi alla ricerca di pascoli per i greggi. Questa partenza era definitiva e li avrebbe condotti alla libertà e ai verdi pascoli della Terra promessa. Lo scopo dell’antico rito sacrificale era stato di allontanare i demoni della peste dal gregge e dalla famiglia; nella notte di Pasqua, però, i primogeniti di Israele non erano stati risparmiati dalla peste dello Sterminatore, grazie a qualche rito magico di protezione, ma soltanto perché Jahve, nella sua misericordia, così aveva voluto.
Dal tempo dell’esodo in poi, quest’antichissimo rito pastorale assunse un significato nuovo per Israele, e commemorò la notte in cui Jahve aveva rivelato la sua misericordia col risparmiare e liberare il suo popolo. Il sacrificio pasquale, originariamente un rito propiziatorio per allontanare gli spiriti maligni, perse così ogni coloritura superstiziosa e divenne, per influsso della fede mosaica, un rito di ringraziamento per le gesta misericordiose di Jahve ed un’espressione di speranza nella salvezza avvenire.
Come nell’era patriarcale, il padre di famiglia immolava l’animale e presiedeva il rito domestico in qualità di celebrante principale; non si trattava quindi di una festa di pellegrinaggio ad uno dei santuari. Ogni famiglia celebrava il rito nella propria casa; tuttavia la Pasqua era profondamente apprezzata quale celebrazione comunitaria. Nessuno doveva celebrare questo pasto rituale da solo o con appena due o tre altre persone, coloro che erano soli dovevano unirsi ad un gruppo familiare sufficientemente numeroso da poter consumare un agnello intero (12,4). Ogni famiglia in Israele doveva sacrificare l’agnello e mangiare il pasto alla stessa ora, simboleggiando così che tutto Israele celebrava insieme la Pasqua come una sola famiglia.
Il sacrificio dell’animale e l’aspersione delle case col sangue erano forse i più antichi elementi rituali della celebrazione pasquale, ma questi elementi non costituivano l’essenza della celebrazione. L’elemento più importante era il convito familiare in cui Israele ringraziava Dio di averlo liberato e di averlo reso un popolo, e in cui rinnovava la sua speranza in una salvezza avvenire.
Le benedizioni di ringraziamento sul pane e sul vino e il racconto sacro della storia dell’esodo divennero così gli elementi più importanti della solennità pasquale; su di essi si fonderà l’Eucarestia, celebrazione cristiana della Pasqua.
LA FESTA DEGLI AZZIMI
Il termine «festa degli Azzimi» (massot) divenne man mano sinonimo della Pasqua. L’evangelista Marco, ad esempio, afferma: «Due giorni dopo era la Pasqua e gli Azzimi» (Mc 14, 1) o ancora «Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la pasqua… » (Mc 14,12). In origine tuttavia la Pasqua (pesah) e la festa degli Azzimi (massot) erano due riti distinti. I nomadi Israeliti portarono con sé il rito della Pasqua quando penetrarono nella Terra promessa; ma la festa degli Azzimi la desunsero in seguito dai Cananei, agricoltori sedentari. Le due feste erano pressoché coincidenti nel tempo, ma non esattamente. I pastori celebravano il loro rito nel primo plenilunio di primavera; la festa degli Azzimi, invece, sembra non avesse in origine alcuna data fissa; la si celebrava all’inizio del raccolto dell’orzo: «Quando la falce avrà incominciato a tagliare il frumento» (Deut 16,9). La data quindi variava, di anno in anno, secondo la maturazione delle messi, ed anche da un santuario locale all’altro, poiché la mietitura dell’orzo non ha inizio simultaneamente in tutte le parti della Palestina. Le due feste, Pasqua e Massot, cadevano comunque sempre nello stesso mese; soltanto con la riunione delle due celebrazioni il primo giorno degli Azzimi coinciderà col plenilunio, giorno in cui si mangiava la Pasqua.
Il simbolismo originario della festa degli Azzimi è evidente. I primi manipoli d’orzo costituivano le primizie dell’anno nuovo; e lo scopo della festa di Massot era appunto di santificare il capodanno. Nel corso dell’anno, quando le donne cananee facevano il pane, mettevano da parte una piccola porzione di pasta fermentata che
conservavano fino al giorno dopo perché facesse fermentare la pasta nuova, e così via di giorno in giorno.
Giunto il tempo della prima mietitura dell’orzo, che costituiva il primo raccolto dell’anno, esse « toglievano il vecchio lievito» dalle proprie case per poter ricominciare l’anno con «lievito nuovo». Il pane impastato con la prima farina dell’anno lo si doveva mangiare allo stato puro, senza commistione di lievito, in segno del nuovo inizio.
La festa degli Azzimi, che venne in seguito identificata con la Pasqua, non perdette mai questo simbolismo originario. Le massaie delle famiglie ebraiche più osservanti trascorrono tutt’oggi i giorni immediatamente precedenti la Pasqua ripulendo la casa da cima a fondo. Questa pulizia primaverile è così radicale che non c’è pericolo che rimanga in casa la più piccola briciola di pane fermentato, nemmeno sotto la credenza o in
qualche cantuccio o fessura.
La Pasqua segna un inizio netto e nuovo. L’antica osservanza cananea degli Azzimi non solo contrassegnava l’inizio del nuovo raccolto, ma l’interpretazione israelitica della festa vi ravvisò ben presto anche la commemorazione della nascita del popolo di Israele e soprattutto dell’inizio della sua vita nella Terra promessa.
È quindi facile comprendere perché la celebrazione della Pasqua, introdotta in Canaan dagli Israeliti, e la festa di Massot, desunta dai contadini cananei, vennero col tempo fuse. Non solo esisteva una certa coincidenza cronologica, ma anche il simbolismo delle due celebrazioni era strettamente affine. La Pasqua commemorava i primi eventi della saga dell’esodo; e il Massot poteva facilmente servire da ricordo della conquista della Terra promessa e della prima fruizione dei prodotti del suolo di quel paese, segno del perfetto
compimento dell’esodo. Per effetto di tale fusione, anche la Pasqua divenne festa delle primizie.
Questo aspetto del simbolismo pasquale ebbe particolare importanza per san Paolo. Tutti gli autori neotestamentari presentano, sia pure in modi diversi, la morte e risurrezione di Gesù come la Pasqua vera e definitiva.
San Paolo, però, dà particolare risalto al simbolismo pasquale relativo alle primizie e al nuovo inizio. La risurrezione ha segnato l’inizio della messe della vita nuova nello Spirito. Gesù Cristo risorto è «primizia di quelli che sono addormentati» (1 Cor 15,20), «il principio, il primo nato di tra i morti» (Col 1,18). La risurrezione quindi segna soltanto l’inizio del raccolto. Paolo ragiona così: «Se è santa la primizia, lo è altresì la massa» (Rom 11,16).
Egli paragona Cristo e il primo drappello di discepoli scelti tra i giudei, al pane azzimo ricavato dalle primizie offerte durante la Pasqua. Paolo riconosce in Cristo l’inizio di una vita interamente nuova (1 Cor 5, 7-8).
(da J. Plastaras, Il Dio dell’Esodo)
La “Pasqua” (PeSaCH) è “il Salto per YHWH”, un pasto che Israele deve mangiare in tutta fretta, nella notte della decima piaga, quando il Signore passa per il paese d’Egitto, colpendo i suoi primogeniti (Es 12,11).
Con i fianchi cinti, i sandali ai piedi e il bastone in mano, gli israeliti devono consumare una cena mangiando completamente un agnello immolato al tramonto e arrostito al fuoco insieme ad azzimi ed erbe amare. In quella notte, gli stipiti e l’architrave delle loro case dovranno essere spruzzati con il sangue dell’agnello.
Vedendolo, lo sterminatore «salterà» – e quindi «proteggerà» – le porte delle case degli ebrei: è questo «il sacrificio di Pesach per YHWH» (Es 12,1-14.21-28).
La Pasqua ci insegna, prima di tutto, che non sono gli esseri umani che si liberano dalla schiavitù. La loro libertà vera è il frutto di una liberazione operata da Dio. L’uomo da solo può peccare e vendersi schiavo al Peccato (Egitto), ma non può uscire, né dal peccato, né dalla situazione di alienazione, in cui si è posto. Il discorso della liberazione, dunque, è essenzialmente teologico, una vera teologia della liberazione.
La parola di Dio ci rivela che le schiavitù, dalle quali noi più intensamente desideriamo essere liberati, non sono quelle di cui sentiamo maggiormente il peso. Gli uomini che, a Cafarnao, con fatica fecero passare il paralitico dal tetto della casa di Pietro per calarlo alla presenza di Gesù, volevano unicamente che il maestro lo guarisse dalla sua infermità. Essi dovettero trovare molto deludente la parola di Gesù: «Figliuolo, ti sono rimessi i tuoi peccati ». I peccati sono una faccenda privata, nascosta, dubbia. C’è sempre tempo per
perdonarli, se proprio devono essere perdonati. Adesso, qui, c’è bisogno di una guarigione ben diversa!
Vogliono che quest’uomo si metta a camminare! Essi hanno tanto faticato per trasportare il malato, affinché venisse liberato dalla sua paralisi. È questa la liberazione di cui avvertono il bisogno (Mt 9,1-8). La gente va dietro a Gesù, perché egli moltiplica i pani. Gesù, invece, perdona i peccati e parla di sé come di un Pane che viene dal cielo (Gv 6,22-66; cfr. Mc 8,14-21).
La liberazione di Israele dall’Egitto, di cui parla la Bibbia, è sì la liberazione da una schiavitù politica ed economica, ma le cui radici affondano nella confusione tipicamente egiziana, quella dell’idolatria. Tale confusione affligge anche gli israeliti, non meno degli egiziani; essa sottomette il popolo di Dio a una ben più radicale alienazione, facendo loro perdere il senso e il gusto della libertà.
(da F. Rossi De Gasperis, Sentieri di vita)