La Via

La Via 25 febbraio

QUESTIONE DI MONTI
(Mc 9,2-10)

Nella scelta di Gesù di salire sul monte c’è qualcosa che mi fa pensare al digiuno.
Non l’astensione dal cibo, ma il distacco dalla gente, dalle sue pressioni e aspettative.
Dal deserto al monte in fondo il passaggio è breve.
Entrambi evocano solitudine; entrambi sollecitano il silenzio e il sacrificio.
Entrambi sono, in poche parole, luoghi quaresimali.
Salire su un monte significa astenersi dalle parole inutili, dalla comunicazione continua ed incessante, dal compulsivo e dannoso essere sempre connessi.
Mi persuado sempre più che la Trasfigurazione del Signore sia avvenuta anche grazie a questa scelta, a questo particolare luogo di digiuno.
Il monte Tabor è però anche l’anticipazione di un altro monte: il Calvario. E la Trasfigurazione è l’atto con cui Gesù prepara i suoi discepoli a sopportare lo scandalo e l’umiliazione del Golgota.
Affinchè la passione non scuotesse la loro fede Egli rivelò la grandezza sublime della sua dignità.
Si passa così da un monte all’altro perché la fede guidi ogni momento di oscurità, di buio e di dolore .
Perché la luce del Tabor squarci le tenebre dalle quali capita spesso di essere avvolti.
Tra i due monti del Vangelo un terzo monte appare: quello di cui parla la prima lettura. Il monte Moria.
Il monte della prova di Abramo.
Là doveva essere sacrificato Isacco; quel monte appare all’inizio come minaccioso.
Un monte che non attira, ma piuttosto respinge.
Eppure su quel monte Dio provvederà.
Grazie alla sua obbedienza Abramo trasforma il significato del monte: da luogo di morte a luogo di vita.
Ci sono parole, nel lessico ecclesiale di oggi, che non si usano più.
Una di esse è “mortificazione”. Ne siamo diventati allergici. Ci pare roba del medioevo. O forse ci fa paura.
I nostri padri nella fede non erano ingenui.
Sapevano e credevano che ogni mortificazione è preludio ad una vita più vera. E che non esiste nessun Calvario che non sia illuminato dalla luce del Tabor.

Don Umberto