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I Profeti

download50pdf50GIONA  IL DESTINO NEL NOME.
Questo gioiello della narrativa ebraica variamente datato tra il 450 e il 200 a.C. ha per protagonista un profeta vissuto secoli prima (VIII sec. a.C.) sotto il re Geroboamo II, sovrano di Samaria e contemporaneo di Amos e Osea, Giona ben Amittai (2 Re 14,25). L’opera è ritenuta dalla maggioranza degli studiosi un racconto sapienziale o un midrash, cioè una parabola o una «finzione didattica» (Feuillet) per dimostrare una tesi, quella della volontà salvifica universale.
Il racconto è ricco di colpi di scena e di spunti esotici. Il nome stesso «Giona» significa in ebraico «colomba» che, tra l’altro, era l’animale sacro alla dea Istar, il cui santuario maggiore era proprio situato a Ninive, la capitale d’Assiria verso cui è mandato da Dio il profeta. Il segno cuneiforme con cui è indicata questa città è una casa e un pesce. Molti vocaboli marinari usati dal libro sembrano derivare dalla lingua fenicia, dato che Israele non aveva grandi tradizioni nautiche a causa del suo litorale piuttosto uniforme. La «nave di Tarsis» su cui si imbarca Giona per sfuggire al comando del Signore (1,3) è l’equivalente dei nostri transatlantici e richiama la flotta di Salomone ma evoca anche la città fenicia di Tarsis, da alcuni identificata con Gibilterra, da altri con Nora-Pula presso Cagliari.
Il pesce mostruoso, anche nella letteratura biblica, è simbolo di ostilità e trapassa progressivamente nella figura di Leviatan, il serpente marino simbolo del caos e del nulla (Gb 40, 25-41, 26), mentre i tre giorni nel linguaggio biblico sono indizio di un evento decisivo. Questo pesce, divenuto famoso come «segno di Giona» nella frase pronunziata da Gesù in Mt12,39-40 e Lc 11, 30, è stato interpretato dalla comunità cristiana come rappresentazione del sepolcro da cui Cristo risorge: nello stesso c. 2 di Giona è citato un salmo di supplica che descrive il profeta nel pesce come se fosse nello sheol, la dimora della morte. Il simbolo ha ottenuto un’immensa popolarità nell’iconografia cristiana anche perché in greco la parola «pesce», ichthus, era l’acrostico della frase «Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore». Nel racconto di Giona il pesce è come il mare, simbolo del regno della morte: vita e morte si affrontano in un duello decisivo, il fedele è quasi conteso da queste due forze. La liberazione, proprio perché è vittoria sul pesce-morte, sulle acque-distruzione (2, 6-7), è celebrata come una risurrezione.
Ma il tema fondamentale che il racconto vuole illustrare è un altro. Esso, infatti, è tutto proteso a celebrare la misericordia universale di Dio che vuole la conversione di tutti gli uomini, anche del tradizionale nemico d’Israele, l’oppressore per eccellenza, la nazione pagana e idolatra, l’Assiria, incarnata nella capitale Ninive. Anzi, già in apertura di racconto, mentre ironicamente e paradossalmente Giona, «sceso nella stiva della nave, era coricato e dormiva profondamente» (1, 5), i marinai pagani «impauriti invocavano il proprio Dio» e, compresa la causa della tempesta, «ebbero grande timore del Signore, offrirono sacrifici al Signore e fecero voti» (1, 16). Così, quando i Niniviti ascolteranno l’appello di Giona alla conversione, subito si metteranno a digiunare: l’iniziativa partirà dalla base (3, 5), si estenderà al sovrano e, antropomorficamente, anche al regno animale. Ma il profeta, nella sua mentalità razzista e integralista postesilica, non vuole cogliere il bene che c’è negli «atei» e nei diversi. Ed ecco, allora, la lezione che il Signore gli impartisce. È questo il vertice narrativo e tematico del libro.
Giona controvoglia aveva lanciato ai Niniviti la parola della penitenza, con irritazione ora assiste all’esito positivo della sua predicazione. È il senso del v. 2 carico di ironia. Giona in cuor suo sognava il fallimento della sua missione per lasciar spazio all’irruzione della collera di Dio. E invece Dio ha mutato quei cuori peccatori. Il ragionamento del profeta e il suo scetticismo è quello farisaico, Dio dovrebbe essere meno paziente, più implacabile, dovrebbe essere meno «umano». Questo Dio troppo «padre», come il protagonista della parabola di Lc 15, offre agli intolleranti e ai fanatici di tutti i tempi la sua lezione attraverso una favola in azione rappresentata in tre atti: il ricino, il verme, il vento. E il significato è in quell’interrogativo finale a cui tutti siamo invitati a dar risposta, anche noi cristiani, attraverso il sì dell’amore (vv. 10-11).
Per la meditazione
• Allontanandosi da Dio, Giona scende sempre più in basso. Tocca il fondo. Cosa comporta per noi allontanarsi dal Signore?
• Giona viene quasi “costretto” da Dio ad andare a Ninive: qual è la verità profonda della sua persona?
• Pervicacità e durezza del pregiudizio di Giona: non crede a quelli di Ninive e vuole la loro distruzione. Perché si finisce con il diventare così?
• Giustizia e misericordia di Dio: sono in contrapposizione?
• Le preoccupazioni di Giona e le nostre. Quale misura?