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Esodo

MOSÈ, IL FARAONE E NOI (IL POPOLO)                               pdf50   download50

Un «popolo di Dio» ancora non nato.
Quando Mosè, accompagnato dal fratello Aronne, si presenta alla corte del faraone, egli si immagina forse che tutta la faccenda debba risolversi entro breve tempo. In fondo, con profonda meraviglia, Mosè ha dovuto .constatare la positiva e generosa rispondenza della sua gente. L’episodio immediatamente precedente, infatti, si era concluso con una affermazione perentoria: «Allora il popolo credette …» (Es. 4,31). Mosè ha sentito stringerglisi attorno quella massa di schiavi, che aveva abbandonato tanti anni prima, e ha l’impressione che quella gente, improvvisamente risorta, costituisca ormai un vero e proprio «popolo », pronto ad affrontare il proprio destino. È così che, senza alcuna paura, Mosè affronta il faraone e gli annuncia il suo messaggio: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto! » (5,1).
Israele, dunque, comincia ad affacciarsi alla storia dell’umanità, forte della sua prerogativa di popolo di Dio; e fin dal primo momento la vocazione d’Israele è segnata: il popolo di Dio esiste per celebrare una festa a Jahvè, nel deserto. Tutto si riassume, dunque, nella scoperta di un’intimità particolare, che ormai lega indissolubilmente gli Israeliti a quel Dio di cui Mosè ha loro parlato. L’emozione di questa scoperta è talmente intensa, che forse Mosè si illude di aver concluso la sua missione nel momento stesso in cui proclama al faraone il suo messaggio. Egli immagina che ormai tutto sia chiarito e risolto: d’ora in poi, Dio stesso penserà al suo popolo, lo raccoglierà nel deserto e l’inviterà alla gioia della sua « festa ». Quanto a lui, Mosè, egli ritiene probabilmente che la sua funzione si sia esaurita in quel suo coraggioso proclama verbale (cfr. 5,1): non gli resta che scomparire dietro le quinte.
In realtà, Mosè si ritira, convinto com’è di essere ormai diventato inutile: lo vedremo ricomparire soltanto al v. 20, quando si saranno chiarificati molti elementi della situazione che attualmente definisce il popolo di Dio. Nel frattempo, si assiste all’emergere in primo piano della comunità degli Israeliti in quanto tale. Dal v. 3 al v. 19 del capitolo 5, vediamo in azione gente che ormai si è assunta la gestione del proprio avvenire: sono gli Israeliti stessi che trattano direttamente con il faraone e affrontano a viso aperto i loro problemi. Essi si sentono ormai investiti della funzione di «popolo di Dio» e, in uno slancio d’entusiasmo, assumono su di sé, in prima persona, la stessa vocazione di Mosè; infatti, recatisi dal faraone, gli Israeliti gli dicono: «Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi … » (5,3). La vocazione personale di Mosè sfuma all’orizzonte, mentre il suo posto viene occupato dal popolo intero, da questa massa di schiavi che un brivido di euforia ha trasformato in una improvvisata comunità di gente, che si sente assai sicura della propria vocazione e della propria comunione d’intenti. Gli Ebrei parlano ormai in prima persona plurale (« noi…! ») e addirittura ragionano come se essi stessi fossero stati presenti al Sinai, e come se ad
essi là Dio si fosse manifestato… Si sentono già «popolo di Dio »; è per questo che,
con una certa arroganza, ripetono il proclama di Mosè, scimmiottandone però e
forzandone grossolanamente i termini: «Ci sia dunque concesso di partire per un
viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio, perché
non ci colpisca di peste o di spada! » (5,3).
Certo, si fa presto a confondere i propri sentimenti solidaristici con la vocazione del
popolo di Dio. Per ora gli Israeliti si illudono di essere ormai giunti alla conclusione
della loro storia: come Mosè, anch’essi pensano di essere già arrivati prima ancora di
partire. Eppure, qualcosa dimostrerà che il vero Israele quello che realmente potrà
essere detto « popolo di Dio », non è forse ancora nemmeno nato!
Il duello cosmico per una nuova creazione: un popolo di
gente libera
Il racconto biblico delle piaghe, dunque, non è altro che la raffigurazione plastica della
lotta di un popolo per ottenere la libertà. Propriamente, come abbiamo visto, colui che
lotta e vince è Dio stesso: l’umanità in attesa di liberazione diviene spettatrice di
questo duello cosmico tra un Dio liberatore e protettore dei deboli – da un lato – e
l’ingiustizia omicida dei potenti – dall’altro-Il fatto che le piaghe siano descritte come
dei fenomeni naturali fa si che esse meglio riescano a simboleggiare la portata
cosmica del conflitto che si sta svolgendo. L’abuso del potere politico e l’ingiusta
oppressione sociale, infatti, non sono fenomeni che riguardano soltanto la sfera dei
rapporti interpersonali: si tratta anzi di « peccati» che inevitabilmente intaccano la
sfera della natura, traducendosi in corrosivi fenomeni di inquinamento ambientale.
L’idolatria del potere faraonico costituisce una vera e propria aggressione al mondo,
all’ordine cosmico. Prima o poi gli effetti di tale aggressione non possono non
esplodere pericolosamente. È appunto quanto intendono simboleggiare le piaghe: la
natura, offesa e tormentata dagli abusi di un’istituzione imperialistica quale è quella
dell’Egitto, si ribella in modo clamoroso e manifesta inequivocabilmente la propria
appartenenza a Dio solo.
Il racconto delle piaghe, in verità, ha l’andamento di una nuova creazione. Basti
pensare che la narrazione si apre con la «piaga delle acque» (cfr. 7,14-25) e si
conclude con quella delle tenebre (cfr. 10,21-29), lasciando ovviamente la decima
piaga – quella dei primogeniti – alla sezione che segue (cfr.11,1-13,16). «Acque» e «
tenebre» sono appunto gli elementi che, nel primo racconto della creazione,
definiscono la situazione del caos originario: «Ora, la terra era invisibile e buia, e le
tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen. 1,2).
L’ostinata opposizione a Dio attuata dal faraone riconduce il mondo intero al disordine
dei primi tempi, quando ancora l’opera creativa di Dio non aveva cominciato a
sistemare i vari spazi del creato ed a riempirli con le creature appropriate a ciascun
ambiente (cfr. 1,3-2,4a). È per questo che la lotta contro il faraone assume il valore di
una vera e propria nuova creazione: il cosmo intero è ferito a causa dei danni
provocati dall’idolatria imperialistica, a cui gli uomini si sono venduti, ma – allo stesso
tempo – il cosmo intero è coinvolto nella grande opera da cui deve nascere la nuova
creatura inventata da Dio: un popolo di gente libera. In forza del potente intervento di
Dio, dalle acque e dalle tenebre, in un parto le cui doglie già annunciano cieli nuovi e
terra nuova, Israele uscirà splendente di tutte le grazie che competono al «figlio
primogenito» (cfr. Es. 4,22).