Celebrare e vivere la liturgia

IL LINGUAGGIO LITURGICO.
Noi viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduta la realtà da essi significata. Non
pensiamo più cose, bensì parole.
Parole, parole! Per questo il nostro pensiero ha sì poca importanza nei riguardi della realtà
che non afferra affatto saldamente. Per questo la nostra parola è così pallida e fioca,
esangue e priva di forza figurativa. Per questo ciò che udiamo non ci tocca l’anima.
Altrimenti potremmo ascoltare e leggere ogni giorno tante cose? Se le parole fossero per
noi qualcosa di più d’un suono che significa alcunché, d’una struttura sonora
accompagnata da fugaci sensazioni e da immagini evanescenti, come potremmo leggere
tanti giornali e prestare ascolto a tante novità?
Pensa alla schiatta terribile dei luoghi comuni! Se vuoi percepire quanto sia vuoto il nostro
discorrere pubblico, presta attenzione ai luoghi comuni. Rabbrividirai fin nelle intime fibre.
Essi sono vuoti, irrispettosi e distruttori come soltanto il vuoto può esserlo. La cosa più
bella è resa volgare. Se per avventura una parola sgorga dal fervore del cuore, tutta piena
di sangue e di forza, in pochi giorni i giornali e le chiacchiere della gente ne prendono
possesso, la sbiadiscono a luogo comune, la rendono scipita fino alla nausea. Oh, noi
dovremmo apprendere a custodire le nostre parole più care, affinché la volgarità del
pubblico chiacchierìo non le insozzi!
Ed il nostro agire! Noi eseguiamo delle forme e non delle azioni! Diciamo delle larve di
parole; compiamo delle ombre di azioni.
Siamo consapevoli di quello che facciamo quando stringiamo la destra a qualcuno? Ci è
chiaro che noi gli diamo la nostra fiducia, la nostra anima? Se lo sapessimo, lo faremmo
con minor frequenza. Ma così tale atto è una vera formalità, che solo di rado è
compenetrata di realtà spirituale, al punto che possiamo dare la destra all’amico intimo
come a chi ci è indifferente o, addirittura, spregevole. I saluti, gli auguri, i doni e la
comunanza della tavola, le svariate forme della deferenza, hanno esse ancora un’anima?
In caso diverso non potremmo scialarle con tanta facilità.
Noi diciamo delle mere parole. Noi compiamo delle formalità. Viviamo in un mondo di
segni, ma la realtà che essi significano l’abbiamo perduta.
Immagini significative di cose, corpi sonori di fatti spirituali: questo han da essere le parole.
Le azioni devono essere compenetrate di realtà interiore e debbono a lor volta abbracciare
realtà. E riconosciamo vera forza di rinnovamento là ove l’uomo è di nuovo sensibile
all’urto dell’essere, vi si arresta dinanzi, ammira, interroga; dove questo urto,
ripercotendosi, gli foggia la parola e l’opera.
Perché ho parlato di tutto questo? Perché in nessun ambito la profanazione della parola,
lo svuotamento dell’agire, la vanificazione del segno è così terribile quanto nella vita
religiosa.
Cosa deve succedere alla nostra anima, quando essa ha disimparato a soffermarsi
dinanzi alle realtà della salvezza? Quando essa pronunzia sante parole che sono una
vuota eco? Quando ha santi segni e compie sante cerimonie senza più avvertire la realtà
che vi è rinchiusa?
Dillo tu stesso, che peso hanno per noi le parole:

«Dio», «Cristo», «grazia»? Cos’è per noi fare il segno della croce? Il piegare le ginocchia?
Rivelazione di una realtà soprannaturale? Oppure una figura d’ombra? Una ascesa verso
il cielo? O piuttosto un compiere delle formalità? Non è troppo spesso la seconda cosa? E
tutto questo non perché in noi rigettiamo quelle verità, bensì perché in noi non v’è più
quella viva coscienza della realtà di cui qui si tratta.
Perché la nostra fede non ha più capacità di presa né forza visiva?
La fede è coscienza di realtà soprannaturali. La fede è vita in un mondo di realtà invisibili.
Abbiamo noi questa fede?
Molte delle parole e delle forme della Chiesa sono di questo genere.
Ci è possibile però un’altra cosa: «ridar loro il proprio senso». Cioè: vedere la realtà che
dietro di esse giace. Rivivere ciò che si pronunzia. Allora le forme si svolgeranno
dall’interiore pienezza.
Da Romano Guardini ”Lo spirito della liturgia”
Da quando è stata introdotta la lingua corrente, letture bibliche o profane e testi meditativi
o provocativi hanno soppiantato i simboli e le manifestazioni simboliche. Quando i testi
latini erano incomprensibili, i simboli e i rituali simbolici avevano il compito di permettere
alla gente di riconoscere, o almeno di intuire, ciò che si celebrava durante la liturgia. Oggi,
invece, sembra che la parola abbia assunto un ruolo predominante nella liturgia. Perciò
vogliamo ricuperare immagini, gesti espressivi, riti e simboli durante la Messa, per
raggiungere non soltanto l’intelletto della persona, ma anche i suoi sentimenti, la sua
fantasia e la sua immaginazione; in breve: per coinvolgere nella celebrazione la persona
intera.
Ma così, non rischiamo di finire di nuovo in un vicolo cieco?
Infatti, la comprensione dei simboli liturgici sembra essere diminuita, perché il nostro modo
di pensare, di uomini del XX secolo, è fortemente influenzato dai metodi di ricerca e dalle
conquiste delle scienze naturali (fisica, chimica, esplorazione dell’universo…).
Evidentemente, i dati esatti forniti dai cronometri e dagli strumenti elettronici, e i concetti
elaborati e verificati da infiniti esperimenti, ci procurano meno difficoltà di comprensione
che non i segni e i simboli (liturgici). Alcuni esperti sono dell’opinione che l’uomo moderno
se la cava meglio con i concetti che non con i simboli.
Uno scienziato che cercava di sondare la natura dei simboli giunse alla conclusione che
essi sono proprio l’opposto dei concetti logico-scientifici. Sfuggono al tentativo di essere
fissati in una forma concettuale univoca (definizione), perché tendono a trasmettere delle
conoscenze in modo diverso dai concetti logici.
1. Partiamo dall’antichità. La parola greca symballein (= collegare, mettere insieme)
indica ciò che gli antichi Greci e·Romani intendevano per «simbolo ».
Molti studiosi spiegano con racconti simili l’origine del significato della parola simbolo. Si
tratta quindi di un segno di riconoscimento o di legittimazione composto di due parti che,
una volta riunite, costituiscono la prova sicura per la verità (così come è asserita).
In questo senso, se ci portiamo nella sfera religiosa, l’intera natura, tutta la creazione, che
possiamo percepire con i nostri sensi, diventa un simbolo, un rimando al Dio-Creatore che
vi è celato dietro.
2. Nel Medioevo, al tempo di Tommaso d’Aquino, venne definito il concetto di simbolo
reale. Con esso si afferma l’esistenza di simboli che non solo indicano una realtà, ma allo
stesso tempo la attualizzano, la rappresentano. Secondo la dottrina cattolica, nel pane
eucaristico Cristo è presente in mezzo a noi, ed’ è perciò più di una semplice indicazione.
Da Gertrud e Norbert Weidinger, “Gesti, segni e simboli nella liturgia”.

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