Celebrare e vivere la liturgia

LA COMUNITA’ LITURGICA.
La liturgia non dice “io”, bensì “noi”. La liturgia non è opera del singolo, bensì della totalità
dei fedeli. Questa totalità non risulta soltanto dalla somma delle persone che si trovano in
chiesa in un determinato momento, e non è neppure la “assemblea” riunita. Essa si dilata
piuttosto oltre i limiti di uno spazio determinato ed abbraccia tutti i credenti della terra
intera. E travalica anche i limiti del tempo, in quanto la comunità che prega sulla terra si
sente una cosa sola anche con i beati, che vivono nella eternità.
Il soggetto, che compie l’azione liturgica della preghiera è la Chiesa.
I fedeli sono piuttosto stretti insieme da un reale principio comune di vita. Questa vita
comune è il Cristo vivente: la sua vita è la nostra vita; noi siamo “incorporati” in Lui, siamo
il “suo corpo”, Corpus Christi mysticum. Ogni singolo credente è una cellula di questa unità
vitale, un membro di questo corpo.
Nel rapporto liturgico, il singolo sperimenta vitalmente la comunità ecclesiastica. Il
credente deve sentirsi con tutti gli altri fedeli una cosa sola in questa unità superiore e con
essi voler formare una sola cosa.
Di qui scaturisce un problema assai delicato ed assai avvertito. La comunità religiosa
esige dal singolo due cose. In primo luogo un sacrificio: deve dimenticare sé per essere
con gli altri, sacrificare alla comunità una parte della sua autonomia e indipendenza. In
secondo luogo, un contributo positivo: si esige da lui che accolga come proprio un più
ampio contenuto di vita.
Il singolo deve rinunziare a pensar a modo proprio e a percorrere vie proprie, giacché
deve perseguire fini ed intenti e seguire pensieri e vie, che la liturgia gli propone. Deve
rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto
proprio: ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi
secondo il proprio volere.
Così vien da sé che il credente debba partecipare ad esercizi, che non corrispondono alle
particolari esigenze da lui sentite in quel momento; ch’egli debba pregare per cose che
immediatamente non lo toccano; accogliere ed esprimere a Dio nella preghiera istanze
che gli sono estranee e che sono determinate dalle necessità della Chiesa universale.
Qui si presenta effettivamente un grave problema, doppiamente sentito dall’uomo d’oggi,
che tanto difficilmente rinunzia alla propria indipendenza.

Quanto la liturgia richiede si può pertanto esprimere con una sola parola: umiltà. Umiltà
come rinuncia: cioè sacrificio della propria autorità ed indipendenza.
L’esigenza sociale della liturgia assume un altro aspetto per quelle persone, che nella vita
sociale vedono meno il lato oggettivo che quello personale o soggettivo: l’uomo vivo ed
operante. Il problema più grave della comunità per costoro non è già quello del come far
proprio il contenuto spirituale oggettivo e universale della vita associata ed inserirsi in
essa. Più gravosa essi sentono l’esigenza della vita comune con altri uomini concreti, la
necessità di dilatare l’intimità tutta personale del loro sentimento ammettendovi altre
persone.
L’unione non con questo o con quello, oppure con una piccola cerchia di persone, a cui ci
leghino uguali interessi o rapporti personali, bensì con tutti, anche con persone che ci
riescano indifferenti, antipatiche od addirittura ostiche.
La comunità è sentita come un vasto tessuto di rapporti personali, come un intreccio
infinitamente vario di rapporti tra “io” e “tu”. Qui si esige carità, qui occorre superare
l’avversione per la vita estranea, materiale, che si svolge attorno a noi, la ritrosia ad aprire
la propria interiorità, il sentimento di “aristocrazia” spirituale, di chi vuol stare solo con
coloro che personalmente ha scelto, a cui spontaneamente si è aperto.
Tuttavia questo inserimento di se stessi è facilitato da una particolarità della vita della
comunità liturgica.
Basta solo ricordare le forme dell’influsso religioso e lo spirito di conventicola di certe
sette. Qui i limiti tra le singole persone sono abbattuti al punto da violare e il riserbo intimo
e talvolta anche quello esteriore.
La socievolezza della liturgia, per quanto piena e sincera essa sia, è ben lontana
dall’esigere l’illimitato sacrificio della propria personalità.
La tendenza che porta alla comunità è, nella liturgia, investita da una vigorosa
controcorrente che assicura l’inviolabilità di certi limiti.
Questo si manifesta particolarmente nel fatto che l’unione dei membri non ha luogo
immediatamente tra uomo e uomo, bensì si compie nell’orientamento degli spiriti verso la
stessa meta, nel loro riposare nella stessa finalità ultima ch’è Dio.
La comunanza sta nei sentimenti, nei pensieri, nelle parole, nel dirigere gli occhi ed il
cuore alla stessa meta; essa consiste nel credere tutti alla medesima verità, nell’offrire tutti
il medesimo sacrificio, nel mangiare tutti dello stesso pane divino; nell’essere tutti stretti in
una misteriosa unità da un unico Dio e Signore. Tra di loro, però, come personalità
determinate e concrete, non si usurpano reciprocamente il campo della intimità.
(da R. GUARDINI, Lo Spirito della liturgia)

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